La decisione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di porre dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio ha generato forti reazioni da parte di molti Paesi. In particolare gli Stati europei, con in testa la Germania, hanno invocato l’esenzione in nome dell’alleanza che lega gli USA all’Europa. La mossa di Trump, già anticipata dal tycoon newyorchese in campagna elettorale, arriva dopo un’indagine approfondita – richiesta nell’aprile del 2017 dallo stesso presidente – per accertare le cause dello squilibrio commerciale americano e predisporre opportune misure per ridurlo.
Siamo, infatti, di fronte a un atto di natura squisitamente “politica” che mira a proteggere gli Stati Uniti dal consistente squilibrio sovraproduttivo del comparto siderurgico generato prevalentemente dalla Cina. Pechino ha provocato la crescita delle importazioni e la conseguente distruzione delle imprese statunitensi del settore. Ciò, oltre a costituire un problema per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, ha compromesso la capacità produttiva indirizzata a servire le industrie strategiche del Paese, generando ricadute negative anche sui livelli occupazionali.
Secondo l’approccio neo-liberale, un Paese si specializza nelle produzioni in cui possiede un vantaggio comparato rispetto agli altri e, qualora non dovesse riuscirci, le produzioni declinano e scompaiono. Tale regola dovrebbe, dunque, valere anche per il settore siderurgico statunitense. Ma l’economia non è fatta solo di efficienza e produttività, in essa incidono anche ragioni politiche.
Così gli Stati, direttamente o in modo soffuso, stringono alleanze con altri Stati e in alcuni casi proteggono settori produttivi del tutto inefficienti garantendone lunga vita a dispetto delle ragioni economiche citate dagli economisti. Ma, soprattutto, essi intervengono a favore dei settori produttivi strategici come ad esempio la difesa e l’information technology, vale a dire quelli da cui dipende la sicurezza nazionale e lo sviluppo tecnologico di un Paese.
La strategia cinese
La Cina, senz’altro, fa scuola in tal senso nel settore dell’acciaio. Un atteggiamento, quello cinese, che ha già provocato le accuse di dumping da parte di UE e Stati Uniti e di mantenimento di una sovradimensionata capacità produttiva rispetto alle possibilità di assorbimento del mercato domestico e internazionale. Le ragioni politiche di tale atteggiamento sono rintracciabili nel fatto che l’eventuale ridimensionamento di un settore ad alta intensità di manodopera, come quello siderurgico, avrebbe conseguenze pesanti in termini di occupazione e quindi, di conseguenza, politiche.
Su tali questioni sono di grande interesse le teorie esposte da Mariana Mazzuccato, Professor in the Economics of Innovation and Public Value all’University College London, la quale, con grande chiarezza ed in modo incontrovertibile ha dimostrato che molti settori dell’economia nazionale (nello specifico degli Stati Uniti) sono legati a imponenti investimenti dello Stato in assenza dei quali non sarebbe nata un’ economia competitiva.
La mossa di Trump, spiegata
Il libero mercato da manuale di economia alberga, pertanto, soltanto nella fertile fantasia degli economisti che spesso trascurano le ragioni politiche che sottendono le relazioni internazionali, la geopolitica e la geoeconomia. Il mercato così come lo conosciamo oggi è il prodotto di un accordo e, nel caso specifico, di un ordine politico nato nel dopo guerra guidato dagli USA a cui l’Europa si è conformata perché, forse, non aveva altre alternative. Ad oggi, tale ordine non è più confacente ai nuovi attori presenti sull’agone internazionale (tra cui Russia, Cina e India) e, forse, inizia a non piacere neanche agli Stati Uniti stessi.
Gli USA, probabilmente, stanno rivedendo le loro opzioni strategiche e non si dimostrano più tanto generosi verso l’ economia europea cosi come verso la Cina perché hanno un squilibrio della bilancia commerciale enorme. Questo il presidente Trump lo ha detto chiaramente in campagna elettorale: «Per quale motivo gli Stati Uniti dovrebbero sopportare un saldo negativo della bilancia commerciale di proporzioni gigantesche?».
Ma Trump ha anche detto a chiare lettere che non intendeva mantenere una politica imperiale. Ridurre un deficit commerciale di tali proporzioni è il passo conseguente per abbandonare questa politica. La politica mirata dei dazi che l’Amministrazione Trump si avvia a mettere in esecuzione costituisce un segnale per l’Europa perché, oltre che dividerla ulteriormente, rischia di piegarla economicamente. Tutto ciò acquista ancora più senso se si considerano anche gli effetti delle politiche di riduzione delle tasse approvate a fine anno da parte della Amministrazione USA che, come sostiene l’ex ministro dell’Economia italiano Giulio Tremonti, verranno usate non solo per rilanciare l’economia del Paese, ma anche per ridefinire il ruolo internazionale degli Stati Uniti. Tali politiche puntano, infatti, a stimolare la produzione interna, e non i consumi, e a cambiare la struttura produttiva del Paese.
Alla luce di queste dinamiche, le vecchie interpretazioni legate al modello economico neo-liberista, viste ormai con diffidenza anche all’interno del Fondo Monetario Internazionale, rischiano di portarci fuori strada impedendoci di vedere le cose così come stanno. La realtà è che l’ordine economico internazionale si sta muovendo verso nuovi equilibri in cui contano sempre di più ragioni politiche. Le nuove gerarchie tra gli Stati si articoleranno sulla capacità di sviluppare nuove tecnologie e di garantire una efficace protezione dell’interesse nazionale.
di Alberto Cossu, Analyst of Vision & Global Trends
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