Il presidente Donald Trump ha superato indenne le principali tappe del suo più lungo e difficile viaggio in qualità di presidente degli Stati Uniti, quello in Asia. La visita di Trump alle Filippine ha concluso infatti il viaggio in cinque paesi chiave della regione: Giappone, Corea del Sud, Cina, Vietnam e Filippine.
Dopo l’incontro con il leader cinese Xi Jinping a Pechino – conclusosi con la firma di accordi commerciali per 250 milioni di dollari e la promessa di redarguire il leader nordcoreano Kim Jong Un in merito al nucleare – e dopo i susurri all’orecchio di Vladimir Putin – l’incontro tra i due big della politica mondiale è rimasto incerto sino alla fine, ma si è poi concretizzato in Vietnam, anche se per soli pochi minuti – Trump ha passato indenne anche l’ultima boa, trovandosi faccia a faccia con il discusso presidente delle Filippine Rodrigo Duterte, che ospitava a Manila il vertice dell’Associazione delle Nazioni dell’Asia meridionale-Asiatica (Asean) giunta al suo cinquantesimo anno di vita.
Come sempre quando si tratta di Donald Trump, prima ancora dei dettagli sull’incontro filippino, sul presidente sono piovute severe critiche per non avere chiesto a Duterte di rendere conto delle violazioni dei diritti umani portate avanti dal suo governo. Il presidente filippino, infatti, è stato accusato sin dal suo insediamento (luglio 2016) di voler deliberatamente usare la violenza di stato per sopprimere il narcotraffico e la criminalità che affliggono le Filippine.
La presidenza violenta di Duterte
Pensare che Rodrigo Duterte era stato definito il “Trump dell’Asia” proprio per i toni forti e provocatori, spesso anche violenti, che hanno caratterizzato la sua campagna elettorale, fortemente incentrata sul tema della sicurezza e sull’adozione di una «politica ferrea contro élite, criminali e corrotti». Questa politica ferrea si è però tradotta in una repressione totale di ogni dissenso e criminalità, che sinora ha fatto 4mila morti. Lo stesso Duterte si era vantato in passato di aver ucciso un uomo con le sue proprie mani, e di non aver provato alcun rimorso.
Nelle Filippine erano abituati a questo suo modo di fare politica: per oltre vent’anni, infatti, Duterte è stato sindaco della città di Davao, nell’isola di Mindanao, dove ha operato una sistematica eliminazione fisica di criminali o presunti tali, attraverso l’impiego di squadroni della morte al suo ordine. Le stime (non ufficiali) parlano di almeno un migliaio di morti in quell’epoca. Mindanao non è un luogo qualunque: è anche l’isola dove negli ultimi cinque mesi si è svolta una violentissima battaglia tra i governativi e centinaia di miliziani jihadisti appartenenti ai gruppi locali Abu Sayyaf e Maute (recentemente affiliati allo Stato Islamico), che hanno tenuto sotto scacco la città di Marawi sino a costringere Duterte all’impiego di forze militari di terra e bombardamenti aerei, sterminando sino all’ultimo dei ribelli, che puntava a instaurare un Califfato nell’isola.
Il presidente Duterte, dunque, è un uomo d’azione che ha fatto della violenza la sua cifra di governo. Al contrario di Donald Trump, la cui violenza si ferma all’uso smodato di twitter, ed è piuttosto incline a mostrarsi quale uomo di mediazione. Tuttavia, non si conoscono molti particolari dell’incontro tra i due leader.
Trump e Duterte: il feeling c’è
Dopo una riunione a porte chiuse, il presidente degli Stati Uniti ha risposto brevemente alle domande della stampa, sorvolando l’argomento dei diritti umani ed elogiando apertamente la guerra contro la droga del governo filippino: «Volevo solo congratularmi con lei perché sta svolgendo un incredibile lavoro sul problema della droga. Molti paesi hanno questo problema, noi lo abbiamo, ma il lavoro che sta facendo è grande».
La risposta di Duterte non si è fatta attendere e lo stravagante presidente, durante la serata di gala organizzata per festeggiare i cinquant’anni dell’Asean, si è presentato sul palco per dedicare a Trump un canto d’amore filippino, dicendo che lo faceva «per ordine del comandante in capo degli Stati Uniti». Tutto questo, mentre preso le strade di Manila i dimostranti davano vita a violente proteste contro la visita del leader americano, che hanno costretto la polizia a usare cannoni d’acqua e allarmi sonori per allontanare i manifestanti.
È ancora troppo presto per dire se il viaggio di Donald Trump in Asia abbia sortito l’effetto sperato, cioè allineare i paesi bagnati da un Oceano sempre meno Pacifico alle politiche americane e ricompattare gli alleati, badando a esprimere una ricetta economica capace di competere con Pechino. Ma, certamente, non si sono registrate note stonate in quest’ambasciata asiatica, né dal continente americano sono giunte per Trump“fake” o “real” news infanganti. Il che, viste le premesse di un presidente sui generis e nuovo alla politica, è già un risultato positivo.
Cos’è l’Asean
Con 630 milioni di abitanti, un PIL complessivo in continua crescita (è previsto un +5,3% nel corso dell’anno corrente), un fabbisogno infrastrutturale di oltre 500 miliardi di euro e una crescita della spesa per beni di consumo del +105% prevista entro il 2030, l’ASEAN (Associazione delle Nazioni dell’Asia meridionale-Asiatica) si configura come una macro area economica ricca di nuove opportunità per gli investitori esteri.
L’Associazione è stata fondata nel 1967 con il proposito di promuovere l’integrazione politica, economica e culturale fra i diversi attori della regione sud-est asiatica. Attualmente, conta dieci Paesi membri: Birmania, Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos, Malesia, Singapore, Thailandia e Vietnam. L’Unione Europea rappresenta il terzo partner commerciale dell’ASEAN, subito dopo Cina e Giappone. L’interscambio tra le due aree economiche ha registrato un totale di più di 235 miliardi di euro nel 2013.
Per quanto riguarda la presenza delle imprese italiane nell’area Asean, secondo i dati della Farnesina, si parla di 420 realtà presenti nella zona rispetto alle circa 30mila aziende italiane stanziate all’estero. Per lo più, le aziende italiane nell’area Asean sono localizzate a Singapore, Indonesia e Malesia. Secondo dati del 2015, a guidare gli interessi italiani cè la Regione Lombardia, il cui interscambio commerciale nell’area ha ormai raggiunto i 5 miliardi di euro.
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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