Ormai il presidente americano ci ha abituato al suo modo di fare politica: basta un tweet e il suo linguaggio spiccio arriva al mondo intero. Un sistema pericoloso, certamente. Ma alquanto efficace, almeno a giudicare dal risalto che viene dato in tutto il mondo alla sua incontinenza verbale.
L’ultimo episodio di quella che ormai è stata definita la “twittocrazia” – neologismo coniato appositamente per l’incontenibile 45esimo presidente degli Stati Uniti – riguarda la politica estera americana, e più precisamente l’Iran.
“Non minacciate mai più gli Stati Uniti o ne pagherete le conseguenze, come pochi nella storia ne hanno sofferte prima. Non siamo un Paese che tollererà più le vostre stupide parole di violenza e morte. Fate attenzione”, ha vergato Trump sul suo account ufficiale, in aperta polemica con le dichiarazioni non meno incendiarie del presidente iraniano Hassan Rouhani, che questo fine settimana ha definito un possibile scontro tra gli Stati Uniti e la Repubblica islamica come “la madre di tutte le guerre”, reminiscenza dell’infausta dichiarazione del fu presidente iracheno Saddam Hussein.
Ora, che i rapporti tra Washington e Teheran siano regrediti in pochi anni ai livelli del 1979, cioè all’epoca della rivoluzione khomeinista, è ormai pacifico e acclarato. Ma che questo sia motivo ricorrente di stupore e angoscia da parte dei commentatori internazionali è tutt’altro che normale. Per una semplice ragione: in politica estera, Donald Trump aveva promesso già in campagna elettorale – dunque, in tempi non sospetti – di correggere tutti gli errori fatti dalle amministrazioni precedenti, a partire dal collega di partito George W. Bush fino all’inviso presidente democratico Barack Obama, reo di aver permesso la realizzazione di “un patto scellerato” con gli iraniani.
L’accordo di Obama sul nucleare
Come noto, l’accordo sul nucleare raggiunto nell’aprile 2015 fu definito un grande successo personale dell’allora presidente Obama – che s’intestò il merito del Joint Comprehensive Plan of Action, firmato dai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite più la Germania e l’Unione Europea – anche se ciò suscitò scandalo e preoccupazioni tanto in Israele quanto in Arabia Saudita.
Oggi, questi stessi Paesi sono i più stretti alleati di Trump in Medio Oriente, e non è difficile capire il perché. Il presidente Usa, al tempo, non aveva solo criticato l’accordo nucleare con l’Iran, ma aveva affermato che, se eletto, lo avrebbe rinegoziato e si sarebbe opposto a tutti gli aspetti dell’accordo, inclusi la durata, il regime di sanzioni e il regime delle ispezioni. Cosa che sta puntualmente realizzando.
Durante un discorso del marzo 2016, in particolare, definì l’Iran “il più grande sponsor del terrorismo in tutto il mondo” e disse che, se fosse diventato presidente, si sarebbe impegnato per smantellare quella che riteneva una “rete terroristica” e per contrastare la “spinta aggressiva a destabilizzare e dominare la regione”.
Secondo il repubblicano, infatti, i problemi in Medio Oriente discenderebbero dal fatto che “gli Stati Uniti hanno leader incompetenti e negoziatori incompetenti. L’accordo dell’amministrazione Obama con l’Iran sul nucleare è molto pericoloso. Scatenerà una corsa agli armamenti in tutto il Medio Oriente e potrebbe essere catastrofico per Israele” furono le sue parole precise.
L’agenda Trump in politica estera
In agenda, neanche a dirlo, una volta diventato l’inquilino della Casa Bianca questo dossier è finito al primo posto, insieme all’irrobustimento del muro con il Messico – altro cavallo di battaglia della campagna elettorale – e al riavvicinamento con la Russia. Tutti dossier affrontati e portati avanti con una coerenza che solo nel paradosso della politica odierna considera qualcosa d’incredibile.
Di fatto, l’iter seguito dal presidente Trump dovrebbe rappresentare la normalità in democrazia: prometto cambiamenti, vengo votato per realizzarli, mantengo la promessa. Con ciò non si vuol sostenere che le scelte di Trump siano giuste, semplicemente che queste erano arcinote e che, pertanto, stupirsi oggi della coerenza di un politico che non sta facendo altro che mantenere le promesse fatte, è infantile ancor prima che ipocrita.
Per quanto riguarda i rapporti con la Russia, ad esempio, Trump non ha mai nascosto una certa simpatia per Vladimir Putin, il quale peraltro lo ha ricambiato più volte, definendolo una persona “di grande talento”. Ed ecco che il 16 luglio 2018 a Helsinki è andato in scena il primo di una serie d’incontri che potrebbero cambiare gli equilibri mondiali.
Poiché quel summit ha gettato le premesse per affrontare in profondità anche la questione iraniana.
Il precedente della Corea del Nord
Come già per il dossier nucleare della Corea del Nord (oggi addivenuta a più miti consigli grazie proprio ai buoni uffici di Washington e Mosca), così il dossier iraniano presto sarà argomento clou del vertice autunnale tra Mosca e Washington, dove le premesse negoziali corrispondono esattamente a quanto Trump ha in mente di realizzare: un accordo che non destituisca manu militari il regime degli Ayatollah, ma che ne riduca il peso politico in Siria e Iraq e, di conseguenza, ne ridimensioni le ambizioni geopolitiche e la pericolosità contro l’alleato israeliano.
Solo se ciò non dovesse concretizzarsi, se cioè il Cremlino alleato degli Ayatollah si dovesse mettere di traverso al piano trumpiano, l’extrema ratio potrebbe condurre a manovre di destabilizzazione che – stavolta sì – potrebbero consistere nel fomentare una guerra civile tutta interna al Paese per cacciare gli esponenti del potere religioso. E non mancano certo le motivazioni presso una larga parte della popolazione civile iraniana, specie tra la minoranza sunnita, che soffre già le rigidità della teocrazia sciita. Ma, ad oggi, l’ipotesi più probabile è che una piccola Yalta, stavolta ristretta ai soli leader di Stati Uniti e Russia, possa portare Teheran a rinunciare alle rivendicazioni nucleari e all’arricchimento dell’uranio, in cambio di un allentamento delle sanzioni economiche che soffocano da decenni il Paese.
Il precedente cui guardare è ancora Pyongyang (peraltro da tempo in affari con Teheran), dove l’impetuoso leader Kim Yong Un ha intelligentemente chinato il capo di fronte al diktat sino-russo-americano, ottenendo in cambio vantaggi economici da incassare progressivamente. C’è dunque da augurarsi che un domani gli Ayatollah, e la Guida Suprema Ali Khamenei in particolare, non siano da meno della Corea del Nord.
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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