Nel corso della lunga campagna elettorale del 2016, Donald Trump ha fatto numerose promesse, alcune delle quali lontane dalle classiche posizioni del suo partito. Su altri temi, al contrario, il tycoon è rimasto coerente con la classica linea del GOP: vediamo insieme come si è rapportato rispetto alle sue affermazioni su Israele, Cina e Iran, senza tralasciare le conseguenze delle sue decisioni
«Gerusalemme capitale»
Trump, per quanto riguarda i rapporti con Israele, si è attestato su posizioni classicamente repubblicane, senza mai lesinare lodi per Israele né celare le proprie simpatie nei confronti del popolo ebraico; emblematico è stato il suo discorso di fronte all’AIPAC (American Israel Public Affairs Committee), tenuto nel marzo del 2016, durante il quale ha dichiarato: «Noi sposteremo l’Ambasciata nell’eterna capitale del popolo ebraico, Gerusalemme».
La promessa di Trump poggia su basi giuridiche: infatti, già nel 1995 il Congresso aveva approvato una legge con la quale si autorizzava lo spostamento dell’Ambasciata nella Città Santa, sebbene tale provvedimento non fosse stato implementato da nessun presidente finora. Fin da prima dell’insediamento il tycoon si era adoperato per mantenere la promessa, nominando ad esempio come Ambasciatore degli Stati Uniti a Tel Aviv David Friedman, vicino all’estrema destra israeliana e decisamente poco disposto al dialogo con i palestinesi; nel contempo aveva però incaricato Jared Kushner, tra le altre cose, di cercare una soluzione di compromesso tra israeliani e palestinesi. Il redde rationem è arrivato molto più tardi: la decisione di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele è giunta solo agli inizi di dicembre 2017 (molti speravano che Trump facesse l’annuncio durante la sua visita in Terrasanta nel luglio).
Il trasferimento dell’Ambasciata invece è previsto per il 2019: una soluzione di compromesso tra le volontà opposte di Kushner e Friedman, che volevano il trasferimento immediato, e di Tillerson, che al contrario chiedeva di aspettare almeno tre anni. Lodata dai repubblicani e accolta tiepidamente dai democratici, all’estero la scelta ha suscitato perlopiù dure reazioni di biasimo, a partire dall’UE, il cui rappresentante per la politica estera, Federica Mogherini, ha condannato fermamente la decisione di Donald Trump. Altrettanto duro è stato Emmanuel Macron, peraltro confrontatosi personalmente con il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, in visita in Europa. In Medio Oriente la condanna nei confronti della scelta statunitense è stata netta: Egitto, Giordania, Arabia Saudita e, naturalmente, la stessa Autorità Palestinese hanno biasimato la scelta del presidente americano, sebbene i primi tre, per motivi economici o politici, non si siano spinti oltre le parole. Il presidente palestinese Abbas, al contrario, ha invitato la comunità internazionale a opporsi compatta. Particolarmente poco conciliante è stato il presidente turco Erdogan, che ha promesso di aprire un’ambasciata a Gerusalemme Est, già riconosciuta come capitale della Palestina dalla Turchia.
L’opposizione della comunità internazionale alla scelta di Trump si è chiaramente palesata, del resto, anche in occasione del voto all’ONU, dove la risoluzione per riconoscere lo spostamento dell’Ambasciata è stata bocciata a schiacciante maggioranza dall’Assemblea Generale, con i soli Stati Uniti ed Israele – assieme a pochi stati del Pacifico – a votare a favore del provvedimento.
«L’Iran non avrà il nucleare»
Una delle maggiori critiche rivolte da Trump a Barack Obama era stato per il cosiddetto Iran Deal, ovvero il patto con cui si provava a impedire a Teheran lo sviluppo di un programma nucleare a scopi militari in cambio della rimozione delle sanzioni contro il Paese. Trump aveva ferocemente stigmatizzato l’accordo diplomatico dell’Amministrazione precedente, tacciandolo di essere un «pessimo accordo», che non dava alcuna garanzia su come l’Iran avrebbe gestito il proprio programma nucleare, che ignorava le esigenze degli alleati di lunga data – fondamentalmente Israele e Arabia Saudita – e che era sintomatico di un atteggiamento benevolo nei confronti di un Paese considerato finanziatore del terrorismo in Yemen, Siria e altre parti del mondo.
In campagna elettorale Trump aveva promesso di ritrattare l’accordo, di ripristinare alcune sanzioni ed eventualmente inasprirne altre. Coerentemente con le promesse fatte, nell’ottobre 2017 l’Amministrazione ha “decertificato” (decertification) il trattato, chiedendo sanzioni aggiuntive: ogni tre mesi, infatti, è compito di quest’ultima informare il Congresso sui progressi dell’Iran nell’adempimento degli obblighi derivanti dagli accordi, ed eventualmente richiedere contromisure più o meno pesanti nel caso in cui si giudicassero insufficienti gli sforzi della Repubblica Islamica nel tenere fede ai patti.
Vicende di politica interna – la riforma fiscale, la forte opposizione dei democratici – hanno fatto sì che il Congresso non prendesse nessuna decisione nel breve periodo. Passati tre mesi, nel gennaio 2018, stavolta è stato lo stesso presidente Trump a congelare l’imposizione di nuove sanzioni contro la repubblica islamica, affermando che tuttavia ciò non sarebbe stato fatto nuovamente, se l’accordo sul nucleare non fosse migliorato. In ogni caso, l’ostilità di Trump nei confronti dell’Iran è palese e tutte le sue mosse, tentate o meno, nei confronti di quest’ultimo, non sono passate inosservate alla comunità internazionale.
Il primo tentativo di applicare le sanzioni sull’Iran era stato condannato anche dall’UE. Sempre Federica Mogherini aveva avvertito gli Stati Uniti che i governi europei non li avrebbero seguiti, sia perché, a loro parere, l’accordo stava dando i suoi frutti, sia perché si trattava di un trattato internazionale che aveva ricevuto la benedizione dell’ONU e non poteva essere vanificato da una sola nazione. Dello stesso tono è stato Sergei Lavrov, il ministro degli Esteri russo. Per parte iraniana, invece, il presidente Hassan Rohani ha minacciato che, nel caso in cui gli Stati Uniti riapplicassero le sanzioni, allora gli iraniani riprenderebbero il loro programma nucleare autonomamente, disapplicando di fatto l’Iran Deal.
Contro il surplus commerciale cinese
Il nazionalismo economico trumpiano non poteva naturalmente non tenere in considerazione la tumultuosa crescita del gigante cinese, sempre più percepito dalla popolazione come il più forte e pernicioso avversario degli Stati Uniti. Di fronte agli elettori Trump ha sempre proclamato di voler difendere a ogni costo l’industria americana, rilanciando la sua personale filosofia del «Compra americano, assumi americano» («Buy American, Hire American»); lungo tutta la campagna elettorale non sono mancati attacchi alla Cina, accusata dal tycoon di essere un currency manipulator (ovvero di indebolire scientemente il renminbi per favorire le proprie esportazioni), nonché di aver ripetutamente violato le regole della World Trade Organization (WTO). Diversamente che con Israele e Iran, tuttavia, l’agire dell’Amministrazione verso il dragone cinese ha dovuto necessariamente essere più cauto.
Trump, nel corso di quest’anno, è riuscito a costruire un buon rapporto personale con il presidente cinese Xi Jinping, con il quale si è già incontrato più di una volta, sebbene ciò non abbia ancora portato a una vera e propria rivoluzione nei rapporti con la Cina. Terreno di scontro tra i falchi, come il segretario del Commercio Wilbur Ross, desideroso di attaccare frontalmente la Repubblica Popolare, e le colombe, come il segretario del Tesoro Steve Mnuchin, scettico sugli eventuali vantaggi di una guerra commerciale, l’Amministrazione non è ancora riuscita a produrre una politica lineare, come testimonia l’atteggiamento del presidente, non infrequentemente contraddittorio. Ciò non toglie il fatto che Trump sia riuscito a strappare qualche concessione in ambito commerciale ai cinesi: durante la sua lunga visita in Asia, svoltasi nel novembre scorso, Washington ha ottenuto da Pechino la firma di accordi commerciali per 250 miliardi di dollari, nonché promesse di future aperture alle aziende americane.
Purtuttavia, il tycoon non ha dimenticato le sue promesse elettorali, e la tendenza generale sembra quella di preferire la linea dura nei confronti del “Regno di mezzo” piuttosto che insistere su maggiori aperture e su una più estesa collaborazione: è recente l’introduzione di dazi sull’importazione di elettrodomestici e pannelli solari, misura tesa a colpire soprattutto Cina e Corea del Sud, che hanno già ventilato la possibilità di appellarsi al WTO per ottenere giustizia. La mossa statunitense è stato preludio di altre misure come il recente annuncio di dazi su acciaio e alluminio. Ciò potrebbe condurre le due potenze mondiali sull’orlo della guerra commerciale, peraltro non esclusa del tutto neppure dal Presidente: «Meglio di no, ma se c’è, c’è».
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