Nel marzo scorso il quotidiano Al Quds Al-Arabi, che viene stampato a Londra e che si occupa di questioni del mondo arabo, ha pubblicato una clamorosa indiscrezione che nessuno, ad oggi, ha smentito. I governi di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti avrebbero intenzione di riportare in Tunisia l’ex dittatore Zine El Abidine Ben Ali, un piano finalizzato a controbilanciare l’influenza del Qatar nel Paese e più in generale nel Nord Africa. La notizia non va certo considerata come una boutade giornalistica per due buone ragioni. Al Quds Al-Arabi è una testata rispettabile conosciuta per impiegare analisti e giornalisti seri e ben informati. In secondo luogo, è fatto noto che a Tunisi e in moltissime parti del Paese sono in molti a rimpiangere i tempi del regime alla luce di quanto avvenuto dopo la Rivoluzione dei Gelsomini del 2011.
Gli emiri del Qatar, che dopo la rivolta del 2011 avevano inniettato prestiti per miliardi dollari nelle casse tunisine, al momento di definire i tassi di interesse non si sono certo distinti per “moderazione” e oggi c’è chi non vede l’ora che spariscano dalla Tunisia. Ben Ali, attualmente in esilio dorato in una località dell’Arabia Saudita insieme alla consorte Leila Trabelsi (voracissima al pari del resto della sua famiglia – i Trabelsi – nello spogliare la Tunsia di ogni bene e grande colletrice di tangenti), sarebbe l’uomo giusto per porre fine all’egemonia di Doha?
Difficile immaginare quale impatto potrebbe avere un suo ritorno nel Paese, anche perché sia su Ben Ali che su alcuni esponenti della famiglia Trabelsi pendono ancora numerose inchieste giudiziarie. L’ultima è stata quella avviata dai giudici della Commissione IVD (Istanza per la verità e la dignità), organo incaricato di accertare la verità sulle violazioni dei diritti umani commesse dall’ex presidente durante il suo lunghissimo mandato alla guida del Paese (1987-2011).
La crisi politica del Paese
Ciò che è certo, al momento, è che la Tunisia attraversa un periodo di profonda crisi politica e istituzionale. Pochi giorni fa il presidente dell’Istanza superiore indipendente per le elezioni (ISIE, la commissione elettorale tunisina), Mohamed Tlili Mansri, è stato destituito e rimosso dall’incarico con effetto immediato. Il provvedimento, che era atteso da tempo, arriva a tre settimane dalle elezioni municipali tenutesi nel Paese nordafricano il 6 maggio scorso. Fin dalla sua nomina, nel novembre del 2017, su Mansri non sono mai cessate le accuse di parzialità vista la sua vicinanza al movimento musulmano Ennahda, attualmente al governo in coabitazione con Nidaa Tounes. La goccia che ha fatto traboccare il vaso sono state le irregolarità manifeste provate nel municipio di Mdhilla dove nel giorno del voto è successo di tutto: elezioni sospese, poi annullate e di seguito ripetute il 27 maggio scorso. Problemi simili si sono verificati anche nel governatorato di Gafsa, nella Tunisia orientale.
Il caso Mansri non è il solo a tenere in apprensione la Tunisia. Sul Paese continuano infatti a pesare seri problemi legati al disagio sociale. La tanto decantata Rivoluzione dei gelsomini del 2011 e la caduta di Ben Ali non hanno prodotto quei progressi in cui molti per anni hanno sperato. Al contrario marginalità, miseria e la deriva radicale dell’Islam – un tempo sotto il controllo diretto del regime – hanno innaffiato la “pianta del male”. Il crollo dell’economia, dovuto soprattutto alla flessione del turismo, e la conseguente disoccupazione di migliaia di addetti di un settore un tempo floridissimo (nel 2017 il tasso di disoccupazione nel settore è aumentato del 15%, mentre la disoccupazione giovanile generale si attesta intorno al 30%), rende sempre più difficile il compito delle autorità.
Islam radicale e terrorismo jihadista
In questo stato di diffuso malcontento sociale i margini per l’avanzata dell’Islam sono enormi. Una criticità messa in rilievo da un’operazione condotta qualche giorno fa dalla Guardia nazionale tunisina che ha portato a termine un blitz antiterrorismo nella zona di Sousse, terza città più popolosa del Paese (173.000 abitanti) dopo Tunisi e Sfax. Sousse un tempo era nota per la sua “medina” (patrimonio dell’Unesco) e per l’ospitalità della sua gente, tanto che era visitata da un milione di turisti all’anno. Oggi detiene invece il triste record di foreign fighters. Sarebbero infatti più di 1.000 coloro che sono partiti da qui per la Siria e l’Iraq, mentre il totale dei jihadisti tunisini oscilla tra le 6.000 e le 7.000 unità. Tutti miliziani confluiti nelle fila del Califfato o in altri gruppi jihadisti. La cellula terroristica oggetto dell’ultimo blitz era particolarmente insidiosa visto che si occupava prevalentemente di proselitismo religioso e dell’arruolamento di giovani e giovanissimi tunisini da inviare nei vari gruppi armati operativi tra Libia, Egitto e Medio Oriente. L’operazione si è conclusa con 13 arresti. Di questi, tre erano già noti alle autorità perché coinvolti in operazioni dell’organizzazione terroristica Ansar Al Sharia. La cellula vendeva letteralmente gli aspiranti jihadisti al miglior offerente. Prova se ne è avuta durante gli interrogatori – notoriamente poco “delicati” – condotti dalla polizia tunisina.
I riflessi sull’Europa
Le dinamiche in corso nella società tunisina sono elemento di costante preoccupazione in tutta Europa visti i numerosi cittadini tunisini protagonisti negli ultimi anni di attentati terroristici nel vecchio continente. Tra i più conosciuti ci sono stati Anis Amri, autore della strage dei mercatini di Natale di Berlino del 19 dicembre 2016, Mohamed Lahouaiej Bouhlel, che si lanciò con un camion sulla folla a Nizza il 14 luglio dello stesso anno, Saifuddin Rizki, autore della strage del 26 giugno del 2015 proprio sulla spiaggia proprio di Sousse.
Altro tema scottante è la gestione dei foreign fighters di ritorno da parte delle autorità tunisine. Se un migliaio di loro sono morti in battaglia, circa 800 avrebbero invece fatto ritorno a casa. Ad attenderli una strategia abbastanza confusa del governo di Tunisi. Prima, fino al 2015, l’ex governo guidato da Moncef Marzouki sostenuto dal partito islamico Ennahda consentiva loro di “pentirsi” una volta tornati in patria. Poi, visto l’insucesso di tale misura, è stata approvata una legge antiterrorismo di tipo draconiano che consente di arrestare tutti i soggetti sospetti di aver «viaggiato all’estero per commettere atti terroristici». In ogni caso secondo l’intelligence tunisina non sono pochi coloro che sono riusciti ad evitare il carcere e che oggi circolano liberamente, e non solo in Tunisia. Fin troppo facile chiedersi quali progetti abbiano in mente. Anche per il nostro futuro.
Stefano Piazza
Giornalista, attivo nel settore della sicurezza, collaboratore di Panorama e Libero Quotidiano. Autore di numerosi saggi. Esperto di Medio Oriente e terrorismo. Cura il blog personale Confessioni elvetiche.
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