Il crollo della valuta turca, che venerdì 10 agosto ha perso il 15% sul dollaro, ha creato scompiglio sui mercati finanziari. Vediamo perché ciò è avvenuto e come mai questa crisi, apparentemente di natura economico-finanziaria, ha in realtà legami diretti con la situazione geopolitica di Ankara.

1. COS’È SUCCESSO

Venerdì 10 agosto i mercati finanziari internazionali sono stati scossi dalla notizia della pesante svalutazione della lira turca del 14,6% nei confronti del dollaro statunitense. La perdita di valore da parte della moneta di Ankara era in atto già dall’inizio di quest’anno, ma il trend si era fatto più pronunciato a partire da aprile, subendo una brusca accelerazione da giugno, quando si sono tenute le elezioni presidenziali che hanno visto la conferma di Recep Tayyip Erdogan alla guida della Turchia. Nell’ultimo trimestre la lira ha perso il 37,5% del suo valore nei confronti del dollaro (dunque una perdita più o meno simile rispetto all’euro), ma il “tonfo” di venerdì scorso ha causato turbolenze molto più pronunciate sui mercati. I titoli del debito pubblico turchi a lunga scadenza hanno infatti visto aumentare i loro rendimenti fino al 20% (segno della crescente sfiducia degli investitori) e le borse europee hanno risentito negativamente di quanto accadeva ad Ankara: Piazza Affari a Milano ha chiuso la seduta del 10 agosto con un “rosso” del -2,5%, anche a causa della notevole esposizione di banche italiane come UniCredit sul mercato turco.

2. LE REAZIONI

L’economia turca è in rapida crescita, infatti nel 2017 il PIL è aumentato del 7% e anche per quest’anno le stime rimangono comunque elevate intorno almeno al 4%. Tuttavia, livelli così elevati di crescita portano con sé rischi di “surriscaldamento” , con l’inflazione che si aggira in doppia cifra e che ora, dopo il crollo della lira, ha toccato il 15%. La perdita di valore della moneta turca non è stata il frutto di una svalutazione competitiva voluta dal Governo al fine di aumentare le esportazioni, ma è invece il risultato di una crescente incertezza da parte degli investitori internazionali, prodotta anche dalla deriva autoritaria e di instabilità politica (e geopolitica) nella quale sta scivolando il Paese. In pratica, i detentori di lire turche le vendono in massa, rimettendole sul mercato in cambio di altre valute ritenute più affidabili, facendo così scendere il loro valore. Ecco perché Erdogan ha invitato la popolazione a vendere i propri gioielli e le riserve di valuta straniera al fine di acquisire lire turche e tentare di arginare quello che, secondo lui, è un «attacco speculativo contro la Turchia». All’esterno, gli Stati Uniti non hanno esitato a prendere contromisure nei confronti di Ankara: Donald Trump ha infatti ordinato immediatamente di aumentare i dazi fino al 20% sull’alluminio e al 50% sull’acciaio esportati dalla Turchia. Una mossa che non può far altro che allontanare ancora di più il Paese mediorientale dall’orbita di alleanze con l’Occidente.

3. GLI SCENARI

Le turbolenze in atto in Turchia metteranno Erdogan alle strette e lo costringeranno probabilmente a prendere scelte impopolari come il rialzo dei tassi di interesse, via quasi obbligata per arrestare l’inflazione e il deflusso di capitali denominati in valuta nazionale. Gli investitori stranieri sono comprensibilmente preoccupati, anche se fino ad ora i rischi sono limitati, poiché le transazioni effettuate dalle aziende straniere avvengono in euro o in dollari. L’Italia è coinvolta in prima persona, avendo un interscambio commerciale con la Turchia che ammonta a quasi 10 miliardi di euro e aziende di primo piano quali FCA, Pirelli e UniCredit che hanno investito in maniera massiccia nel Paese. Il PIL in crescita e i fondamentali macroeconomici tutto sommato ancora in ordine (il rapporto debito/PIL è superiore di poco al 50% e appare per il momento gestibile) autorizzano a pensare che, da un punto di vista puramente economico e finanziario, l’attuale momento di crisi sia superabile. I veri rischi per la Turchia sono però di natura geopolitica: il progressivo allontanamento di Ankara dagli alleati europei e dagli USA, in seguito all’irrigidimento di Erdogan dopo il tentato golpe del 2016, e l’atteggiamento ambiguo tenuto da quest’ultimo nella gestione della crisi siriana, rischiano di isolare la Turchia e di accrescere l’instabilità politica in un’area chiave per gli equilibri globali. Dall’altro lato, l’aggressiva politica estera di Trump non ha favorito una ricomposizione dei contrasti: se la corda tra Ankara e Washington si dovesse spezzare, mettendo a repentaglio il ruolo della Turchia nella NATO, le conseguenze potrebbero essere negative anche per l’economia.

Davide Tentori