Dopo il referendum costituzionale dell’aprile scorso, la Turchia del presidente Recep Tayyip Erdogan sta assumendo in modo sempre più evidente le sembianze di uno Stato autoritario. La consultazione popolare tenutasi il 16 aprile ha approvato, seppur con uno scarto minimo e fondati sospetti di brogli, 18 emendamenti alla Costituzione proposti dal partito islamico-conservatore al governo AKP (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) in accordo con il partito di estrema destra MHP (Partito del Movimento Nazionalista). Forte del consenso della maggioranza del popolo, Erdogan ha così potuto stringere il Paese nella sua morsa, annientando ogni forma di opposizione con raid sistematici delle forze di polizia e con la tacita connivenza del potere giudiziario. Il tutto nel silenzio pressoché generale dei Paesi membri dell’Unione Europea.
Nell’ultima settimana di ottobre, secondo il ministero degli Interni turco sono state arrestate altre 1.256 persone: 759 erano sospettate di avere legami con l’influente imam Fethullah Gulen, esule negli USA dal 1999 e accusato di essere l’artefice del colpo di stato del luglio 2016; 283 perché ritenute affiliate a cellule dello Stato Islamico; 199 in operazioni contro il PKK curdo (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) nel sud della Turchia. In quest’ultimo blitz sono stati uccisi 19 combattenti e arrestati anche una ventina di militanti dell’estrema sinistra.
Altre operazioni ci sono state nel mese di novembre con un centinaio di arresti di fiancheggiatori dell’ISIS, bloccati prima di entrare in Siria. È una versione che però lascia perplessi: dove volevano andare in realtà questi presunti jihadisti, considerato che lo Stato Islamico in Siria non esiste ormai più come entità statuale?
Nel mirino oppositori e giornalisti
Ad attirare l’attenzione è stata però anche un’altra operazione che, negli stessi giorni, ha visto la polizia turca entrare in azione in 24 province tra cui Ankara e Smirne. La procura di Istanbul ha firmato oltre 150 mandati d’arresto per i dipendenti della holding Kaynak che opera in vari settori: dai media all’educazione, dai servizi logistici al turismo. Tutti gli accusati devono rispondere di «sospetti legami» con la FETÖ (Fethullahist Terror Organization), organizzazione terroristica direttamente collegata secondo il governo turco a Gulen. Il blitz ha portato all’arresto, tra gli altri, di alcuni avvocati e di membri del Partito Socialista turco.
Questi numeri vanno a sommarsi alle migliaia di arresti ordinati da Erdogan negli ultimi anni. Bastano poche cifre per capire perché parlare di purghe in Turchia oggi non è affatto un’esagerazione: 155 giornalisti detenuti nelle carceri, un record mondiale; 19 testate giornalistiche chiuse; 550 aziende nazionalizzate o chiuse; 19 sindacati e centinaia di altre associazioni messi al bando; 130mila dipendenti pubblici licenziati; 55mila persone a cui è stato ritirato il passaporto.
Il pugno di ferro del presidente ha trasformato la Turchia in un regime che non ammette alcuna opposizione o critica. Chiunque provi a opporsi a Erdogan, o tenti di rivelare la natura degli affari illeciti che coinvolgono la sua “corte” fatta di amici e parenti, finisce in galera per poi essere giudicato dai tribunali che allestiscono autentici “processi farsa” comminando pesantissime condanne da scontare nelle terribili carceri sparse per il Paese, ben descritte nel libro Arrestati del giornalista Can Dündar. L’ex direttore del quotidiano Cumhuriyet, uno dei più noti e apprezzati giornalisti turchi, è stato arrestato e incarcerato insieme al collega Erdem Gül per poi essere liberato il 26 febbraio del 2016 in seguito al pronunciamento della Corte costituzionale. Oggi, non potendo più svolgere la sua professione, vive in Germania come la maggior parte degli oppositori del governo di Ankara.
Le indagini dei servizi segreti turchi in Europa
Ma le purghe di Erdogan si estendono anche in Germania, dove cento tra intellettuali e accademici di origine turca sono accusati di «propaganda a fini terroristici». Accuse contenute nei dossier preparati degli uomini dei servizi segreti turchi del MIT (Millî İstihbarat Teşkilâtı) presenti in gran numero in tutto il continente europeo, oppure dagli imam “spioni” che riferiscono direttamente al ministero del Culto turco Dyanet.
Tra le alte professionalità considerate “sovversive” da Ankara ci sono il sociologo Muzaffer Kaya, che insegna all’Università di Berlino, e il giurista Zeynep Kıvılcım, membro dell’Institute for Advanced Study. Entrambi sono tra coloro che un anno fa hanno firmato l’“appello per la pace in Turchia”. Nel documento, i firmatari denunciavano «la repressione esercitata dalle forze di sicurezza turche nelle aree curde alla fine del 2015 utilizzando politiche di sterminio e di espulsione», promettendo che «noi, gli accademici e gli scienziati di questo paese, non parteciperemo a questo delitto».
La riposta di Ankara, come era prevedibile, non si è fatta attendere. I firmatari sono stati subito accusati di «propaganda per l’organizzazione terroristica PKK». Ecco come Erdogan sta dando la caccia ai suoi oppositori in Europa. E c’è da scommettere che non si fermerà.
Stefano Piazza
Giornalista, attivo nel settore della sicurezza, collaboratore di Panorama e Libero Quotidiano. Autore di numerosi saggi. Esperto di Medio Oriente e terrorismo. Cura il blog personale Confessioni elvetiche.
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