Il territorio ucraino è da sempre in bilico fra Oriente e Occidente, tra l’orbita russocentrica e quella europea. Prima del 25 dicembre 1917, data a cui si fa risalire la nascita della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina (RSSU), la popolazione di lingua ed etnia ucraina non si era mai costituita in una formazione nazionale unitaria e culturalmente omogenea.
Le regioni orientali – nello specifico gli oblast’ (province) di Donetsk, Lugansk e la penisola della Crimea – sono state incluse nel territorio ucraino solo in epoca sovietica. Le prime due furono annesse alla RSSU nel 1918 su prescrizione del politburo presieduto da Lenin; sino a quel momento avevano fatto parte della Mosovia prima e dell’Impero Russo zarista poi. La Crimea fu “donata” alla RSSU solo nel 1954 all’epoca in cui era primo segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica Nikita Krushev, in segno di riconoscenza verso gli sforzi bellici dei soldati ucraini durante la Seconda Guerra Mondiale.
Le regioni occidentali a ovest di Kiev, al contrario, hanno una propensione nettamente più europea, essendo state terre di confine dell’Impero asburgico e, in seguito, della Polonia. Solo nel 1921, al termine della guerra russo-polacca, passarono sotto egida sovietica con la firma del Trattato di Riga.
Il territorio ucraino può pertanto dirsi quasi spaccato in due, lungo una linea di frattura che coincide con il fiume Dnepr. La disomogeneità etnica, culturale e linguistica che ha trovato una sua organicità solo durante l’era sovietica, rappresenta quindi l’elemento da cui partire per comprendere le dinamiche che, dalla fine del 2013, regolano il conflitto del Donbass, l’area costituita dalle province di Donetsk e Lugansk.
2013: l’inizio del conflitto
L’evento scatenante, nel novembre di quell’anno, è la mancata conclusione dell’accordo di associazione tra Ucraina e Unione Europea. L’allora presidente ucraino Viktor Janukovic, solo una settimana prima del summit di Vilnius di fine novembre che avrebbe decretato il raggiungimento dell’intesa, dichiara che la firma non ci sarebbe stata. Le pressioni economiche – nella fattispecie l’imposizione di dazi su alcune categorie di prodotti provenienti dall’Ucraina – esercitate dal Cremlino a partire dall’agosto 2013 avevano evidentemente sortito l’effetto sperato, non senza la complicità della classe dirigente ucraina. Janukovic era infatti parte di quell’establishment economico-industriale e politicamente molto influente che ancora oggi gode di un rapporto privilegiato con Mosca. Con la firma dell’accordo con l’UE, quel rapporto si sarebbe indubbiamente incrinato.
Dopo la mancata firma, migliaia di cittadini si riversano per le strade di Kiev e delle altre principali città ucraine, dando vita a quella che sarebbe poi stata definita la più grande manifestazione pro-europea della storia. Giovani e meno giovani rivendicano la loro appartenenza europea con imponenti cortei e assemblee pubbliche. Ma ben presto lo spirito pacifico di quelle manifestazioni è scavalcato dalla spinta violenta di gruppi di facironosi, professionisti del disordine di destra dei quali sarebbe successivamente stato accertato il collegamento diretto con servizi segreti stranieri (in primis la CIA) che avevano tutto l’interesse a destituire Janukovic e stabilire al suo posto una figura politica più vicina agli Stati Uniti e all’Europa.
Sulla sponda orientale i sentimenti popolari sono opposti e guardano a Mosca: nel giro di qualche settimana cominciano duri scontri tra gruppi paramilitari filo-russi e le forze governative. Un’impressionante escalation di violenza che, in seguito all’occupazione degli edifici governativi delle province dell’est, culmina in una unilaterale dichiarazione di indipendenza dall’Ucraina, concretizzatasi con la nascita delle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk.
Il Cremlino, forte di un rinnovato interventismo militare e mai rassegnatosi al “declassamento” post-perestrojka da “Grande Potenza” a potenza regionale, coglie la palla al balzo. La popolazione della Crimea, quasi totalmente russofona, accoglie senza particolari disordini le truppe russe, e nel marzo 2014, in seguito a un referendum popolare, dichiara la propria volontà di divenire parte della Federazione Russa.
La reazione impalpabile dell’Occidente
L’Occidente, inerme, si limita a condannare quanto accade in Crimea e in Donbass. L’UE e gli USA, assieme ad altri Stati “amici” di Washington e Bruxelles (Canada, Australia, Norvegia, etc), emanano pesanti sanzioni economiche e commerciali nei confronti della Russia, che continuano a essere ciclicamente rinnovate. Da ultimo, l’UE le ha prorogate a inizio marzo 2018.
Anche l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite condanna le ingerenze russe: con la risoluzione 68/282 del primo aprile 2014 dichiara non valido il referendum popolare in Crimea, che avrebbe dovuto legittimare l’intervento russo. Quanto deciso in seno all’Assemblea Generale non ha però alcun vincolo giuridico, poiché solo il Consiglio di Sicurezza può esprimersi in termini legalmente vincolanti. Ma il veto russo, in tale sede, porta l’ONU a una condizione di stallo.
Un primo tentativo di mediazione internazionale si registra solo nel settembre 2014, con il protocollo di Minsk. Dopo una lunga serie di incontri, viene firmato nella capitale bielorussa un protocollo che impone un imminente cessate il fuoco e la creazione di una zona smilitarizzata in corrispondenza del confine creatosi tra le due Repubbliche indipendenti e l’Ucraina. Il tentativo si rivela però vano: poco dopo, infatti, le violenze riprendono con la battaglia che porta i ribelli alla conquista dell’aeroporto di Donetsk.
Nel febbraio 2015 un nuovo accordo siglato sempre a Minsk dà adito a rinnovate speranze nella direzione di una risoluzione pacifica del conflitto. Ma, anche in questo caso, non sortisce gli effetti sperati. È innegabile, tuttavia, che le violenze, soprattutto in seguito alla battaglia per la presa della città di Debaltseve avvenuta nella prima metà del 2015, si siano quantomeno placate.
Frozen conflict
Le ostilità, però, vanno avanti. Assistiamo oggi a una guerra di trincea: il numero di vittime e feriti continua a crescere quotidianamente su entrambi i versanti. Complice il silenzio mediatico, l’aspro conflitto si è trasformato in un “frozen conflict”.
La Russia, contemporaneamente impegnata sul fronte siriano, nega qualsiasi complicità con i ribelli del Donbass. Eppure diverse fonti confermano la presenza di soldati russi in uniforme militare priva di stemmi, nonché il periodico arrivo di convogli umanitari dal confine orientale.
Il Cremlino, come scrive Andreas Umland dell’Istituto per la Cooperazione Euro-Atlantica di Kiev, non ha un reale interesse affinché il conflitto si risolva. Tenerlo congelato porta a Mosca due sostanziali vantaggi: in primo luogo, la possibilità di fare pressioni sul governo di Kiev in sede di negoziati; inoltre, il crescente isolamento e la progressiva radicalizzazione dei territori controllati dai ribelli potrebbe portare, nel lungo periodo, a un loro effettivo passaggio sotto il controllo russo.
I fattori in gioco sono moltissimi, e non possono essere ridotti a una questione nazionale. La vicenda ucraina costituisce il culmine di un progressivo allontanamento diplomatico tra la Russia e il blocco Atlantico. E il popolo ucraino, filo-occidentale o filo-russo che sia, ne è la principale vittima.
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