Nel dicembre del 2016, il re dell’Arabia Saudita Salman ibn Saud ha visitato tutti gli Stati membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo tranne l’Oman. In quell’occasione Riad ha inviato un messaggio forte di disapprovazione verso la posizione assunta dal Sultanato in merito alla guerra nel vicino Yemen. In questo Paese i sauditi sono impegnati da più di tre anni in operazioni militari contro i ribelli Houthi sostenuti dall’Iran, senza riuscire a piegarne la resistenza. Fin dall’inizio dell’offensiva, l’Oman ha cercato di favorire soluzioni negoziali, anche per timore di infiltrazioni di gruppi radicali nella regione del Dofar, che confina con lo Yemen per circa 350 Km.
Il timore di Riad, in parte condiviso dagli Stati Uniti, è che Mascate utilizzi la tradizionale cautela della sua politica estera per mantenere rapporti politici ed economici con Teheran, proprio nel momento in cui sauditi e iraniani sono divisi da opposte pretese egemoniche regionali. Le relazioni cordiali con la potenza sciita risalgono a prima della rivoluzione khomeinista. Già alla fine degli anni ’60, lo scià Reza Pahlavi aveva inviato truppe ed equipaggiamenti in Oman per aiutare Mascate a sedare le rivolte nel Dofar, incoraggiate dai gruppi comunisti dello Yemen del Sud. Durante la guerra tra Iran e Iraq negli anni ’80, l’Oman fu l’unico Paese del Consiglio di Cooperazione del Golfo a non sostenere militarmente Baghdad, mantenendo i contatti con Teheran. Le relazioni con la Repubblica islamica si sono approfondite anche attraverso la condivisione di interessi strategici e geopolitici nello Stretto di Hormuz e l’organizzazione di esercitazioni militari congiunte.
La decisione del Sultano Qaboos di non allinearsi alle case regnanti dei Saud di Riad e degli Al Nayan di Abu Dhabi nella scelta di isolare il Qatar sul piano diplomatico e commerciale ha destato ulteriori sospetti circa la disponibilità dell’Oman ad allinearsi in maniera acritica alle scelte internazionali dei suoi potenti vicini. Nel gennaio scorso Doha e Mascate hanno firmato un memorandum d’intesa per consentire al Qatar di utilizzare alcuni porti omaniti. In questo modo, l’emirato potrà mantenere aperte diverse rotte commerciali di vitale importanza per le esportazioni di prodotti energetici in cambio della realizzazione di progetti urbani e infrastrutturali nel sultanato.
Le ragioni economiche hanno un peso rilevante nelle scelte di politica estera dell’Oman. Quest’anno la crescita dovrebbe attestarsi al 2,1 %, anche grazie agli investimenti di Doha, ma il Paese deve affrontare problemi finanziari rilevanti. La dipendenza del Sultanato dalle esportazioni di gas e petrolio resta molto elevata, sebbene il Paese disponga di riserve accertate di idrocarburi molto inferiori rispetto agli altri Paesi del Golfo. Ai ritmi attuali di estrazione il petrolio omanita dovrebbe esaurirsi entro quindici anni e le politiche di differenziazione dell’economia non hanno ancora prodotto risultati significativi. Tali programmi puntano molto sul turismo, l’industria manifatturiera e lo sfruttamento della posizione geografica dell’Oman nel quadro delle principali rotte marittime mondiali. Il calo delle quotazioni del barile tra il 2014 e il 2015 ha determinato un forte aumento del deficit, che nel 2016 ha sfiorato il 20 % del Pil, prima di scendere progressivamente fino a una stima del 6 % per l’anno in corso.
Le difficoltà economiche hanno avuto ripercussioni sul piano sociale. Nel 2017 il Paese è stato interessato da proteste derivanti soprattutto dal malcontento per la diffusa disoccupazione giovanile. Il Sultanato non riesce ad assorbire in maniera efficiente la forza lavoro, spesso altamente qualificata, di cui dispone proprio a causa della lentezza nell’implementazione dei piani di differenziazione economica, sebbene il prestigio e l’autorità del sultano Qaboos non siano mai stati messi in discussione. Proprio la figura del sovrano crea ulteriori incognite per il futuro del Paese. Dal 2015, quando fu ricoverato in Germania per una malattia mai precisata, il sultano conduce una vita molto ritirata, anche se tutte le principali decisioni politiche devono sempre ricevere la sua approvazione finale. Qaboos non ha figli e, secondo le leggi del Paese, sarà la famiglia reale ad accordarsi sul nome del successore quando il trono sarà vacante, tenendo conto di uno o più nomi che Qaboos può lasciare in buste sigillate. Il rischio è che l’Oman possa entrare in una fase di profonda instabilità politica e di lotte di potere capaci di annullare i notevoli progressi economici compiuti dal Paese nell’ultimo mezzo secolo. Tra l’altro il Sultanato non è estraneo a colpi di Stato per impadronirsi del potere, come anche l’attuale sovrano fece nel 1970 con il padre, che aveva creato un regime oppressivo e destinato quasi tutti i proventi della vendita del petrolio alle spese militari.
L’Oman, dunque, nei prossimi anni dovrà affrontare sfide rilevanti sia sul piano economico che dal punto di vista politico. Lo sviluppo di settori diversi da quello energetico richiede un quadro politico al riparo da improvvisi vuoti di potere nei quali potrebbe incunearsi l’azione delle potenze vicine nel tentativo di attirare il sultanato nei rispettivi sistemi di alleanze. Il rischio è di vanificare gli sforzi di modernizzazione del Paese voluti dall’attuale sovrano che, in quasi mezzo secolo di regno, ha trasformato il Sultanato da realtà arretrata e marginale in attore rilevante nello scacchiere delicato del Golfo.
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