Domenica 8 aprile in Ungheria si sono tenute le elezioni legislative. Dei 199 parlamentari, 106 vengono eletti con un sistema maggioritario di collegi uninominali e 93 vengono scelti sulla base di un sistema proporzionale. Per intenderci, si tratta di un sistema che ha forti somiglianze con l’attuale legge elettorale italiana. Fidesz, il partito conservatore del premier Viktor Orban, al potere dal 2010, ha conquistato, contro buona parte dei pronostici, la maggioranza dei 2/3 necessaria per cambiare la Costituzione. I conservatori hanno infatti conquistato il 49% dei voti e ben 134 seggi, lasciando le briciole all’opposizione. L’affluenza è stata molto alta (circa il 69% degli aventi diritto si sono recati alle urne), ma questo ha inaspettatamente favorito Fidesz. Gli osservatori internazionali, in particolare l’OSCE, hanno accertato la sostanziale regolarità delle operazioni di voto, ma hanno stigmatizzato il clima elettorale.
Le conseguenze interne del voto
Orban ha improntato la propria campagna elettorale a un forte nazionalismo. L’opposizione, divisa tra un nugolo di partiti europeisti e di sinistra e la formazione di estrema destra Jobbik, non è riuscita a ostacolare efficacemente il premier uscente. La campagna elettorale dei conservatori, incentrata sull’ostilità all’immigrazione e sulla lotta a presunte ingerenze straniere, si è rivelata vincente. Del resto, i temi nazionalisti sono una costante nella storia politica di Orban, che, nel 1989, mentre il regime socialista era sull’orlo del crollo, divenne noto a livello nazionale (all’epoca era solo un leader di un gruppo di studenti liberali) grazie a un appassionato discorso, tenuto ai funerali di Imre Nagy, in cui chiese il ritiro delle truppe sovietiche dall’Ungheria.
Il premier ungherese ha dipinto se stesso e il suo partito come l’ultimo baluardo contro la paventata islamizzazione del Paese e ha scommesso sulla storica diffidenza di una consistente parte del popolo ungherese nei confronti degli stranieri. Del resto, il secondo partito è Jobbik, formazione che, sebbene abbia cercato di ripulirsi, sconta pesanti sospetti di estrema vicinanza ad ambienti e concetti neonazisti e antisemiti.
La presa di Orban sull’Ungheria diventa sempre più salda, lasciando presagire ulteriori strette alle libertà fondamentali. In particolare, sembra probabile che il premier magiaro aumenterà la pressione nei confronti dell’organizzazione non governativa guidata e finanziata da George Soros, magnate ebreo di origini ungheresi e con cittadinanza statunitense che simpatizza per l’opposizione e che è inviso a diversi ambienti della destra internazionale. Del resto, Orban non ha mai nascosto la sua ambizione di trasformare l’Ungheria nel prototipo di una “democrazia illiberale”, esplicitando le sue convinzioni in un celebre discorso del luglio 2014. In quell’occasione, Orban affermò che «sistemi politici che non sono occidentali, non sono liberali e non sono neppure democrazie possono comunque portare al successo di una nazione» e sostenne che «la democrazia non è necessariamente liberale», pur riconoscendo i valori di libertà e diritti umani.
I riflessi sull’Europa
Dopo i risultati delle elezioni austriache e italiane, il voto ungherese, confermando Orban, rafforza i movimenti e i leader che non vedono di buon occhio i progetti franco-tedeschi sull’Unione Europea. Teoricamente, Fidesz è membro del Partito popolare europeo (egemonizzato dai conservatori di Angela Merkel). Di fatto, i rapporti tra la cancelliera tedesca e il premier ungherese sono pessimi almeno dall’estate del 2015, quando la crisi dei rifugiati e la sua gestione da parte di Merkel scavarono un profondo solco tra Budapest e Berlino. Orban ha però ottimi rapporti con gli elementi più conservatori della CDU e con i bavaresi della CSU. L’Ungheria è inoltre ben integrata nella catena produttiva mitteleuropea e gli investimenti tedeschi sono vitali per l’economia magiara e per il consenso di Orban. È quindi molto improbabile che il premier ungherese porti il proprio Paese fuori dall’UE.
Tuttavia, un Orban rafforzato e ringalluzzito aumenterà la sua opposizione alle politiche sull’immigrazione (non dimentichiamo che nei prossimi mesi si discuterà della riforma dei Trattati di Dublino sul diritto d’asilo) e non perderà occasione di collaborare con quei governi, in primis quello polacco e quello austriaco, che esprimono posizioni ostili a un’Unione Europea “burocratica”, considerata una minaccia per l’identità nazionale degli Stati membri.
Del resto, se Orban alcuni anni fa era visto come una bizzarra eccezione, venendo per questo sostanzialmente tollerato, oggi molti lo indicano come un precursore dell’ondata “populista” che – da Brexit alla vittoria di Trump, dall’exploit di Marine Le Pen ai risultati delle elezioni tedesche, austriache e italiane – ha investito (pur con esiti diversi) tutto l’Occidente.
Insomma, il voto ungherese rappresenta una conferma dell’euroscetticismo e, in particolare, dell’ostilità dell’Europa orientale (rappresentata dal Gruppo di Visegrad) a ulteriori avanzamenti del processo di integrazione europea. Per Bruxelles, Parigi e Berlino si tratta di un’ulteriore insidia sulla strada, già accidentata e incerta, per riformare l’UE.
Un chicco in più
L’Ungheria ha sempre avuto un peculiare rapporto con la storia. Dalla dominazione ottomana a quella austriaca a quella sovietica, la storia ungherese è intrisa di tradimenti (veri o presunti), irredentismo e tragedia. Nel 1920 il Trattato del Trianon impose condizioni durissime al Paese (che, a causa del sistema a monarchia bicefala, veniva ritenuto sconfitto e corresponsabile, insieme all’Austria, dello scoppio della prima guerra mondiale), seppellendo i sogni di “Grande Ungheria”. Per questo la diffidenza di gran parte dell’opinione pubblica e delle classi dirigenti ungheresi nei confronti delle trame straniere è spesso definita “sindrome del Trianon”.
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