Ben quattro regioni italiane sono ad «alto livello di potenziale infiltrazione terroristica». Al primo posto è la Lombardia, con punteggio 10. Seguono il Lazio (9), il Piemonte (4.19) e l’Emilia Romagna (4,10). È quanto emerge dal report Italian Terrorism Infiltration Index 2018, a cura dell’Istituto Demoskopika. È l’ennesima conferma dell’alta esposizione del nostro Paese alla minaccia terroristica. Minaccia, però, che «non riguarda solo il territorio italiano e i cittadini residenti, ma l’intero sistema-Paese, ovvero i suoi interessi strategici nell’area del Mediterraneo e nel resto nel mondo, così come la sicurezza e l’efficienza delle comunicazioni interne e delle sue infrastrutture: siamo storicamente e geograficamente collocati nel punto di incontro delle principali tensioni geopolitiche e culturali del pianeta, tra Nord e Sud, tra Est e Ovest, tra Islamismo jihadista e Islam moderato, e così via».

A parlare è il professore Ciro Sbailò, ordinario di Diritto pubblico comparato all’Università degli Studi Internazionali di Roma – UNINT, dove è preside della Facoltà di Scienze Politiche e dirige il nuovo Corso di Laurea magistrale in Investigazione, Criminalità e Sicurezza Internazionale. Lo abbiamo cercato dopo la notizia della base jihadista scoperta nel centro storico di Napoli, perché tra i primi, in Italia, ha richiamato l’attenzione sul rischio che il radicalismo jihadista si insedi nelle aree di disagio sociale prima egemonizzate dagli estremismi di sinistra e destra: è la tesi dell’«integrazione antagonista», che Sbailò ha sostenuto nel suo lavoro di membro della Commissione per lo studio dell’estremismo jihadista istituita dal Governo italiano nell’estate del 2016. Parlando con lui il discorso è poi finito inevitabilmente sui rischi del sistema-Paese e su cosa bisogna fare per affrontare queste nuove minacce, perché, spiega, «è vero, finora ce la siamo cavata, anche grazie alla grande professionalità delle nostre forze dell’ordine, e in particolare dei nostri reparti speciali, che sanno usare molto bene i mezzi della tecnologia, ma non hanno mai abbandonato la cultura del controllo e dell’“ascolto” del territorio».

Però?

Non può durare. La nuova “sintassi” del terrore è spiazzante: si può essere colpiti in qualunque momento e al di fuori di ogni logica tradizionale, come hanno dimostrato, per citare gli esempi più eclatanti, gli attacchi dell’11 settembre 2001 e la strage di Parigi del 2017. Non a caso, in merito a questi eventi gli studiosi e anche le autorità politiche parlano di intelligence failure, ovvero di fallimento degli apparati di informazione e sicurezza. L’analisi comparata dimostra che le novelle legislative, come la previsione di nuove figure di reato o l’inasprimento delle pene, non servono per contrastare le minacce “molecolari”. Occorre, invece, far crescere una nuova cultura dell’intelligence e della sicurezza. E le Università, in questo senso, svolgono un ruolo fondamentale.

Qual è la situazione nel nostro Paese a tale riguardo?

C’è molto fermento. Per quel che riguarda il nostro Ateneo, abbiamo pensato di mettere a frutto le nostre esperienze didattiche e la nostra vocazione internazionale per contribuire a colmare un vuoto e, nello stesso tempo, offrire nuovi sbocchi professionali ai giovani, in un campo che richiede, a un tempo, alta specializzazione e una certa dose di apertura mentale e creatività. Abbiamo docenti sia tra gli accademici di carriera, sia tra prestigiosi esperti, provenienti dalle forze armate, dalla pubblica sicurezza, dalla magistratura e dall’intelligence.

Qual è l’identikit del laureato di questo corso?

È un professionista in grado di analizzare e comprendere le minacce al sistema Paese provenienti dalla criminalità organizzata, dal terrorismo di matrice politica o religiosa e dalle varie forme emergenti di antagonismo sociale violento. Si tratta anche di valutare le possibili interconnessioni tra queste forme di criminalità e la loro capacità di minacciare la sicurezza nazionale, così come gli interessi economici e politici del Paese.

Quindi sono necessarie competenze a tutto campo?

Sì. Ma non pensiamo affatto a una specie di tuttologo. No. La figura che stiamo formando è un professionista, in grado di utilizzare con padronanza competenze di natura sociologica, linguistica, giuridica, geopolitica, economico-finanziaria e strategica, per conseguire un obiettivo ben specifico: prevenire e contrastare le minacce. È una figura di cui c’è diffusa e profonda necessità.

In particolare, in quali ambiti?

L’elenco è lungo, faccio alcuni esempi: le Nazioni Unite (Commission on Crime Prevention and Criminal Justice, UNDCP, UNICRI, NODC, UNHCR), l’Unione Europea (Frontex, Europol, Easo, Cepol, Emcdda), le forze di Polizia, i servizi di Sicurezza e informazione della Repubblica. Ampia richiesta viene anche dalle Organizzazioni Non Governative, impegnate negli aiuti alle popolazioni interessate a catastrofi umanitarie o vittime di condizioni particolarmente afflittive sotto il profilo sociale e sanitario. Un capitolo a parte, poi, è quello della sicurezza delle imprese private.

In che senso?

L’Italia ha una spina dorsale economica fatta di imprese piccole e medie, spesso a carattere familiare. Il fatturato è dovuto in parte significativa all’export – specie nei settori del “made in Italy” – e importanti attività produttive sono delocalizzate, cioè collocate fuori dall’Italia, spesso in aree critiche. Ora, la difesa di questi interessi non può essere affidata solo ai tradizionali meccanismi di sorveglianza e sicurezza. Ci vogliono giovani professionisti, in grado di fare analisi e valutazioni del rischio, anche partecipando al Consiglio di Amministrazione di un’azienda, prima che sia intrapreso un investimento in una determinata area o che siano avviate determinate transazioni.

E non esistono tali figure?

Esistono in modo sporadico. Noi stiamo formando professionisti a tutto tondo, altamente specializzati, con basi scientifiche solide e una salda cultura costituzionale, al servizio del sistema-Paese, al cui interno sono strettamente legati tra loro la sicurezza dello Stato, la libertà dei singoli membri della comunità nazionale e gli interessi di quanti contribuiscono alla crescita della nostra economia.