«Mi candido alle presidenziali per sconfiggere Donald Trump e ricostruire l’America. Sono convinto che le mie esperienze in fatto di business, amministrazione e filantropia mi permetteranno di vincere e guidare il Paese». Con queste parole, racchiuse nello spazio di un tweet, Michael Bloomberg è entrato ufficialmente nella corsa elettorale tra le fila del Partito Democratico. A 77 anni e con un patrimonio di oltre cinquanta miliardi di dollari, la candidatura di Bloomberg è indubbiamente una scelta divisiva che porterà con sé interrogativi fino all’estate 2020. Intanto perché è il più vecchio tra i candidati del partito dell’Asinello, ed è uno dei dieci uomini più ricchi degli Stati Uniti. Inoltre, siamo a fine novembre, a febbraio si parte con le prime tornate elettorali in Iowa e in New Hampshire, e nessuno ha mai vinto le primarie arrivando con un tale ritardo rispetto alla concorrenza.
Ma soprattutto, il modo in cui è sceso in campo – idea nell’aria da tempo – ha fatto storcere il naso a molti: venerdì 22 l’ex sindaco di New York, ha speso circa trenta milioni di dollari per comprare spazi pubblicitari televisivi. Trenta milioni, una cifra enorme, molto più di quanto abbiano speso in pubblicità televisive tutti gli altri candidati democratici dall’inizio della campagna elettorale. Non solo un gesto forte e improvviso che colpisce l’opinione pubblica hic et nunc, ma anche un avviso per il futuro: la sua capacità di spesa potrebbe squilibrare il dibattito interno al partito in vista delle primarie. In un’intervista concessa a Politico, l’analista della società di monitoraggio della pubblicità televisiva Advertising Analytics Ben Taber ha spiegato che si tratta di una «spesa massiva, probabilmente destinata a diventare la più grande di tutti i tempi». Con il rischio di frammentare ulteriormente il Partito Democratico al suo interno.
La decisione di Bloomberg di scendere in campo potrebbe essere stata innescata dal calo nei sondaggi di Joe Biden. Dei tre candidati in cima ai sondaggi – inserite nella lista anche Elizabeth Warren e Bernie Sanders – l’ex vicepresidente è il più moderato, e il suo elettorato si dovrebbe sovrapporre idealmente a quello di Bloomberg. Ma nell’ultimo periodo Biden sembrerebbe aver perso un po’ di appeal nelle considerazioni di voto a causa dell’Ucrainagate che vedrebbe coinvolto suo figlio Hunter: nell’aprile del 2014, Hunter Biden accettò un incarico nel consiglio di amministrazione della Burisma Holdings, la più grande compagnia ucraina di gas naturale, ma non aveva nessuna esperienza nel settore energetico né particolari conoscenze dell’Ucraina, e il fatto di essere il figlio del vicepresidente – in quel momento il membro più impegnato dell’amministrazione Obama in Ucraina – farebbe pensare che abbia avuto più di una semplice “raccomandazione”. La collocazione di Bloomberg, quasi da centrista, e la coincidenza del suo ipotetico elettorato con quello di Biden potrebbe essere un enorme punto a favore se questa storia dovesse far perdere consensi all’ex vicepresidente.
C’è però un’altra questione che apre interrogativi sulla candidatura di Bloomberg. Riguarda il suo status di miliardario: per un candidato del Partito Democratico essere miliardari, in questo preciso momento storico, non sembra proprio una grande virtù, come hanno sottolineato gli stessi Warren e Sanders – non a caso di due più a sinistra sullo spettro politico. Elizabeth Warren è la candidata più “in forma” nelle ultime settimane, quella che sembra muovere maggiormente l’opinione pubblica e quella che riesce a farsi ascoltare di più in questo momento – anche da chi non la vede come prima opzione di voto – se non altro perché la percezione degli elettori democratici in questo momento è che sia una candidata più che credibile per un’eventuale testa a testa con Trump. E la sua proposta di una forte imposta patrimoniale potrebbe essere usata, almeno dialetticamente, contro lo stesso Bloomberg. Bernie Sanders invece ha attaccato l’ex sindaco di New York nel modo che gli è più congeniale: ha parlato di «arroganza dei miliardari» come di un male da combattere in America. «Sono disgustato dall’idea che Michael Bloomberg o qualunque altro miliardario pensino di poter scavalcare il processo politico e spendere decine di milioni di dollari per comprare le elezioni. Se non sei in grado di costruire sostegno dal basso per la tua candidatura, candidarti a presidente non è il tuo lavoro», ha spiegato.
Il senatore del Vermont, però, in questo momento sembra quello con minori possibilità rispetto ai terzetto che guida i sondaggi del Partito Democratico. Si sa, i suoi sostenitori sono un blocco compatto, ma anche poco inclusivo. Insomma, chi sostiene Sanders difficilmente cambierà idea da qui in avanti, ma trovare nuovi voti al di fuori di quella fetta di elettorato costerà molta fatica. Secondo alcuni analisti, se dovesse arrivare terzo o quarto in Iowa e in New Hampshire, dove lo danno ora i sondaggi, la sua campagna rischia di non fare molta strada.
Infine, sulla strada per la presidenza, Bloomberg dovrà allontanare anche la prospettiva di una crescita di Pete Buttigieg, oggi il candidato favorito alla vittoria in Iowa del prossimo 3 febbraio. Il sindaco di South Bend vola nei sondaggi e nelle donazioni ricevute (più di quasi tutti gli altri). In più sembra un candidato con una base elettorale molto liquida: piace molto a tutti i democratici, anche a chi voterebbe qualcun altro in prima battuta, e questo potrebbe portargli grossi vantaggi al primo passo falso di uno dei suoi avversari. Se dovesse riuscire ad attirare consensi anche tra gli elettori non bianchi – in questo momento la sua carenza più grande – anche Buttigieg potrebbe diventare un serio candidato per le primarie del suo partito.
Alessandro Cappelli
Giornalista professionista appassionato di politica internazionale e sport. Laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali all'Orientale di Napoli con una tesi in Storia dell'America Latina. Collabora con Rivista Undici e Linkiesta. Ha scritto il libro "STAND UP, SPEAK OUT. Storia e storie di sport e diritti civili negli Usa".
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