Quando si analizza la politica di un paese sovrano – specie se influente come gli Stati Uniti e se guidato da un leader discutibile come Donald Trump – è indispensabile tenere lontane le emozioni e guardare invece alla sostanza delle linee strategiche che esso esprime. E questo vale anche a riguardo delle decisioni dell’Amministrazione Trump sul muro al confine col Messico e sul respingimento degli immigrati.
Come abbiamo scritto più volte, nell’annunciare la costruzione del muro il nuovo governo americano non ha fatto alcuna “rivoluzione”, ma ha semplicemente proseguito lungo una linea tracciata già negli anni Sessanta, quando gli Stati Uniti iniziarono a domandarsi come arginare la crescente immigrazione irregolare e il traffico di stupefacenti. All’epoca, il numero di stranieri fermati dalla polizia di frontiera era nell’ordine delle 100mila unità, ma già nel 1977 la cifra era salita a un milione. Da allora e sino al 2007 non si è mai avuta una diminuzione del fenomeno, con una media dei fermati oltrefrontiera di origine messicana di 7 su 8.
Fu nel 1993, per volere dell’Amministrazione Clinton, che prese vita l’idea di erigere un muro anti-immigrazione lungo tutta la linea di confine (3.000 km), che comprende quattro stati: California, Arizona, New Mexico e Texas. Il primo mattone fu posato nella zona di El Paso, in Texas, durante l’operazione soprannominata Hold the Line, nel 1994.
Da allora, l’esigenza di un efficace controllo frontaliero ha assunto un’importanza sempre più rilevante, divenendo un problema di sicurezza nazionale in seguito agli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. In questo senso, va letta l’operazione Streamline, iniziata nel 2005 sotto la presidenza di G.W. Bush, che ha reso obbligatoria la detenzione delle persone accusate di recidiva nell’ingresso illegale sul territorio americano.
Streamline ha suscitato molte polemiche per le accuse di aver incrementato la popolazione carceraria degli Stati Uniti e aver portato a una criminalizzazione generalizzata dei migranti. Bush ha però tirato dritto e nel 2006 ha firmato il Secure Fence Act, che ha autorizzato l’espansione del muro per altri 1.100 km in Arizona e California, e innalzato le forze per il pattugliamento dei confini nazionali a un totale di quasi 20mila agenti.
Le ragioni del braccio di ferro tra USA e Messico
Dunque, la scelta di Donald Trump è nel segno della continuità con le linee strategiche americane e non rappresenta semplicemente l’infelice uscita di un “presidente bullo e razzista”, come lo hanno troppo frettolosamente etichettato. Altro discorso è dove possa portare il braccio di ferro con Città del Messico, che ha già visto il presidente del Messico Enrique Pena Nieto disdire l’incontro con il suo omologo americano, in aperta polemica circa le dichiarazioni di Trump. E, soprattutto, come potrà il presidente riuscire a fare in modo che siano i messicani a pagare il muro al posto degli americani, secondo quando promesso dallo stesso in campagna elettorale.
Fu nel 1993, per volere dell’Amministrazione Clinton, che prese vita l’idea di erigere un muro anti-immigrazione lungo tutta la linea di confine (3.000 km), che comprende quattro stati: California, Arizona, New Mexico e Texas
Partendo dalla notizia relativa alla tassa di confine del 20%, anch’essa va presa con la dovuta freddezza analitica e tenuta lontana dalle emozioni. Secondo quanto affermato dal portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, in occasione del volo inaugurale di Trump sull’Air Force One, le dichiarazioni dirompenti del presidente restano per adesso nel campo delle ipotesi: “L’idea è dimostrare che generare entrate per pagare il muro non è poi così difficile, come alcuni hanno suggerito. Basterebbe una sola misura per fare questo – ha dichiarato Spicer – Ecco un modo. Boom. Fatto. Ma potremmo anche andare in un’altra direzione. Potremmo parlare di tariffe. Potremmo parlare di altri dazi doganali. Ci sono un centinaio di altre cose che potremmo proporre”. La Casa Bianca, insomma, ci sta ancora riflettendo. Dunque, calma e gesso.
Il peso delle importazioni dal Messico
Ma se davvero il governo proseguisse nell’idea di tassare al 20% i prodotti importati dal Messico, questo comporterebbe un aumento dei prezzi che graverebbe sulle tasche dei consumatori tale per cui, alla fine, sarebbero di fatto gli stessi americani a pagare per il muro.
Secondo Forbes, i beni e le merci importate dal Messico negli USA valgono 291 miliardi di dollari l’anno. La voce principale è costituita dalle automobili, il cui valore è pari a 75 miliardi. Seguono i prodotti agro-alimentari come verdure e frutta (ma anche birra) per un valore di 21 miliardi di dollari: secondo il Dipartimento del Commercio americano, quasi tutti gli avocado (il 78%) e i pomodori (71%) americani provengono dal Messico, e così il 15% dello zucchero totale consumato nel paese e l’80% della tequila, un prodotto molto amato e largamente diffuso in tutti gli Stati Uniti.
Su questi prodotti di consumo giornaliero si avrebbero certamente aumenti significativi: un avocado che oggi si compra per meno di 2 dollari e mezzo ne costerebbe 3, mentre un chilo di pomodori salirebbe da 4 a 5 dollari, e così accadrebbe per le fragole, i lamponi e via dicendo. Questo avrebbe conseguenze anche per il settore della ristorazione: la cucina Tex-Mex è ormai parte integrante della cultura gastronomica americana al pari degli hamburger, e numerose catene come Chipotle Mexican Grill, Del Taco, Yum Brands, Fiesta Restaurant, El Pollo Loco e Chuy ne risentirebbero pesantemente (le società quotate in borsa ne hanno già pagato lo scotto durante le ultime transazioni finanziarie).
Creare posti di lavoro potenziando il settore auto
Di converso, la convinzione dell’amministrazione Trump è che questo inasprimento tributario nei confronti del Messico – specie se verrà accompagnato da sgravi fiscali per le aziende – possa generare una spinta imprenditoriale tale da riportare fabbriche e produzioni all’interno degli Stati Uniti, creando milioni di posti di lavoro. Ed è proprio l’occupazione lo scopo finale che si prefigge di raggiungere questa presidenza.
Anche in questo caso, però, la scelta di Trump non rappresenta affatto una novità, ma solo la prosecuzione lungo solchi già tracciati dai suoi predecessori, come lo sforzo teso a resuscitare la produzione automobilistica in America, asset strategico ineludibile per un paese che ha sempre puntato molto sull’industrializzazione.
Secondo Forbes, i beni e le merci importate dal Messico negli USA valgono 291 miliardi di dollari l’anno. La voce principale è costituita dalle automobili, il cui valore è pari a 75 miliardi
È grazie al settore auto, ad esempio, che Barack Obama ha vinto le elezioni del 2012: salvando General Motors e Chrysler dal fallimento e garantendo i posti di lavoro della “Motor City” di Detroit in Michigan, Obama ha colto uno dei suoi più grandi successi politici, che hanno avuto un impatto determinante nell’economia americana. “Sette anni fa le vendite di auto erano scese ai minimi da ventisette anni. L’anno scorso hanno raggiunto i massimi di tutti i tempi” disse all’indomani della vittoria decisiva nello stato dell’Ohio.
L’annuncio di Ford di annullare un investimento di 1,6 miliardi di dollari in Messico per il 2017 e destinarne 700 milioni per espandere lo stabilimento di Flat Rock, in Michigan, va proprio in questa direzione. E lo stesso vale per l’annuncio dell’ad di FCA Sergio Marchionne secondo cui Fiat Chrysler Automobiles quest’anno investirà un miliardo di dollari negli Stati Uniti, creando 2mila posti di lavoro in Michigan e Ohio.
Il NAFTA e il libero scambio
La Casa Bianca, perciò, oltre alle critiche, incassa anche molti sì degli imprenditori. Certamente, permangono numerose incognite, come ad esempio la rinegoziazione o l’abbandono del NAFTA, l’accordo nordamericano per il libero scambio che coinvolge Canada e, appunto, Messico.
Trump è stato sibillino sul futuro dell’accordo: nel caso in cui il governo approvi ufficialmente la tassa di adeguamento alle frontiere, non è chiaro se questo innescherà contemporaneamente l’uscita degli Stati Uniti dal NAFTA. Di certo, il Messico si rivarrebbe sull’Organizzazione Mondiale del Commercio, da cui tuttavia ricaverebbe ben poco. Questo doveva essere argomento di discussione dell’incontro saltato tra Trump e Pena Nieto, e non è dato sapere se e quando verrà ridiscusso o interrotto unilateralmente.
In ogni caso, non deve stupire che il neo presidente incontri tante resistenze e che la sua politica sia tanto osteggiata dai media: più che prendere le distanze dai suoi predecessori e tracciare linee politiche inedite, Donald Trump finora si è distinto solo per il vizio di dire le cose brutalmente, senza curarsi dei protocolli e delle cortesie istituzionali. Il che ne fa un presidente differente, forse a tratti imprevedibile, ma non poi così originale. In definitiva, sorprende tutto il clamore suscitato dalle dichiarazioni di Trump, considerato il fatto che il presidente sta solo applicando alla lettera quanto già dichiarato in campagna elettorale decine e decine di volte.
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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