Nelle ore immediatamente successive all’ufficialità della vittoria del candidato democratico Joe Biden alle elezioni presidenziali americane, sono in molti a chiedersi cosa sarà adesso del partito repubblicano, sedotto e poi abbandonato da Donald Trump.
A dare una risposta a caldo a questa domanda è il giornalista del Foglio Daniele Raineri.
Ci sono almeno due scuole di pensiero a proposito di quello che succederà adesso al partito repubblicano, che durante il mandato di Donald Trump ha perso la sua identità ed è diventato un contenitore vuoto al servizio del presidente. La prima – qui si fa un riassunto brutale – dice che a partire dal 20 gennaio Trump diventerà un disoccupato con un account Twitter, come dice Gregg Carlstrom dell’Economist. L’altra scuola di pensiero sostiene la tesi opposta. Trump anche nella sconfitta elettorale ha battuto tutte le previsioni, ha raccolto settanta milioni di elettori americani, ha dato ai repubblicani vittorie sorprendenti alla Camera e al Senato, scrive Jonathan Swan di Axios. Trump “aveva una presa quasi messianica sui repubblicani prima delle elezioni. Adesso sembra di nuovo un profeta, capace di parlare e di smentire le previsioni apocalittiche” che parlavano di un trionfo democratico su tutti i fronti, Senato incluso, scrive in un rapporto del sito Axios che ha per titolo “Trump l’onnipotente”.
E’ riuscito a fare meglio di quanto si pensava con le donne bianche e gli afroamericani, due segmenti dell’elettorato che gli stanno contro quasi per definizione. Non è affondato nella ridicolaggine, è ancora competitivo. Per qualche tempo continuerà a condurre una guerriglia legale e mediatica per far invalidare i voti conteggiati dopo il 3 novembre. Poi potrebbe creare un governo ombra che terrà occupati i repubblicani e sarà molto aggressivo con l’Amministrazione Biden e con i media. Potrebbe anche dire che si candiderà nel 2024 e così potrebbe tenere il Partito repubblicano in ostaggio, scrive Swan, perché in pochi avrebbero la forza per sfidarlo (e se poi quello rivince?) e tenere in attesa milioni di fan adoranti.
Un’altra analisi interessante è quella di Ugo Tramballi del Sole 24 Ore.
Se nessun presidente americano è stato mai votato tanto quanto Biden, grazie anche all’inaspettata affluenza alle urne, quasi 70 milioni di americani hanno scelto Donald Trump: cinque milioni più che nel 2016, quando vinse su Hillary Clinton. A molti verranno i brividi alla schiena pensando che senza una pandemia ma con la sola economia al centro della campagna elettorale, forse avrebbe vinto Trump. Anche tornando sulla vetta della sua torre di Manhattan a fare il miliardario insolvente, Trump potrebbe continuare ad essere la personalità più influente nel Partito repubblicano.
Si dice che potrebbe ricandidarsi fra quattro anni. Dipende da quanto il partito lo seguirà nella sua folle affermazione che i voti degli avversari sono legali solo fino a quando restano meno dei suoi; se alla fine i repubblicani manterranno la maggioranza in Senato; quanto tempo l’opinione pubblica sopporterà il disorientamento provocato da un presidente che si rifiuta di concedere la vittoria all’avversario; se la Corte Suprema a grande maggioranza conservatrice, preferirà le pretese di Trump all’equidistanza nel giudizio.
Ma gli Stati Uniti hanno bisogno del Partito repubblicano quanto di ogni altra istituzione democratica del paese. L’America di oggi assomiglia all’Italia: è priva di una forte e strutturata destra democratica, costituzionale e internazionalista, sostituita invece da una populista dalle tendenze illiberali e sovraniste. Il partito che è andato dietro a Donald Trump, assecondandone ogni volontà in nome della conquista e della conservazione del potere, è molto distante da quello di Dwight Eisenhower, Ronald Reagan, George Bush, John McCain. La polarizzazione del dibattito politico ha privato gli Stati Uniti del suo centro. Ma se i democratici hanno mantenuto le distanze dalle frange dell’estrema sinistra, il Partito repubblicano di Trump è connivente con la destra suprematista bianca.
Venendo meno alla vocazione di un partito moderno, quella di rappresentare tutti i settori degli elettori-cittadini, il Partito repubblicano è sempre più la forza politica dei bianchi, dei maschi, delle aree rurali e meno istruite. Anche nei “red states”, gli stati graniticamente repubblicani (rosso è il colore del partito), le città sono a grande maggioranza democratica. La guida di Donald Trump ha approfondito questa deriva. Ma lui è solo il prodotto di un cammino che il Partito repubblicano aveva iniziato un trentennio fa. Newt Gingrich, presidente della Camera dei rappresentanti dal 1995 al ’99, autore del “Contract with America”, è l’antesignano della polarizzazione politica e della partigianeria istituzionalizzata, come alternativa al dialogo e al compromesso. Poi il Tea Party, in realtà un “caucus”, una fazione sempre più potente dentro il Partito, che nel corso degli anni ha influenzato i repubblicani, spingendoli verso posizioni radicali in politica e in economia.
Idealmente Ronald Reagan ne fu il mentore, ma da presidente fece prevalere le qualità dello statista all’estremismo ideologico, quando le vicende internazionali gli offrirono la possibilità di vincere la Guerra Fredda senza umiliare l’Unione Sovietica. Decisiva nella formazione del partito di oggi – e anche dei suoi successi elettorali – è la sua crescente sovrapposizione al movimento evangelista: il “Christian born again” diventato uno slogan politico per George W., il presidente che ai difetti crescenti del Partito repubblicano aveva anche aggiunto un neo-imperialismo fuori tempo. L’America è sempre stato un paese osservante. Ma prima di Bush – il figlio privo delle qualità dello statista che il padre possedeva, la messa della domenica di un presidente era un fatto privato. Da lui in poi è un atto politico. Sarà difficile, ma il Partito repubblicano ha l’obbligo di smarcarsi dall’ombra di Donald Trump. In tutti i paesi democratici un pilastro modernamente conservatore serve a far funzionare il sistema. In una superpotenza come l’America è necessario per garantire la pace.
Redazione
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