Il primo incontro faccia a faccia tra Donald Trump e Vladimir Putin è andato in scena ad Amburgo nel luglio del 2017, durante un incandescente summit del G20 che prometteva di risolvere questioni cogenti come la guerra in Siria e il cyberterrorismo, alias Russiagate. Sul primo punto, all’epoca si era raggiunto giusto un accordo per una tregua militare nel sudovest della Siria, mentre sul secondo – ovvero le interferenze russe durante le elezioni americane – Putin aveva offerto le rassicurazioni del Cremlino sulla non colpevolezza di Mosca, e il suo ministro degli Esteri Sergei Lavrov aveva poi riferito alla stampa che il presidente americano gli era sembrato «convinto della spiegazione».
A un anno di distanza, si è quindi svolto in Finlandia il secondo faccia a faccia tra i due presidenti, stavolta ben più lungo e preparato. Le questioni sul tavolo, neanche a dirlo, sono però rimaste le stesse: la Siria – che, per estensione pratica, equivale a dire terrorismo e Medio Oriente – e il nodo degli attacchi hacker di provenienza russa negli Stati Uniti. A quanto è dato sapere, mentre sulla Siria si lavora a un accordo robusto e durevole (che tuttavia necessita dei suoi tempi e di non poche mediazioni degli sherpa dei rispettivi governi), sulla questione delle ingerenze russe si è subito creato un caso in America.
La polemica sul Russiagate
Questo perché da Helsinki Trump ha velatamente sostenuto in conferenza stampa che la colpa è dell’FBI e dell’inchiesta del procuratore Robert Mueller che indaga sulle collusioni tra il Cremlino e la campagna elettorale del presidente americano. «Un disastro per il nostro Paese» ha dichiarato Trump. Più precisamente, alla domanda di un giornalista se credesse più alla versione dei servizi segreti USA o a quella di Putin, la risposta del presidente USA ha spiazzato tutti: «I miei mi dicono che è la Russia. Io ho qui il presidente Putin e lui ha appena detto che la Russia non c’entra. E io aggiungo, non vedo alcuna ragione per cui dovrebbe avrebbe dovuto farlo».
Apriti cielo. La polemica ha raggiunto vette melodrammatiche negli States, al punto che in tarda serata Trump ha dovuto stemperare i toni con un tweet: «Ho grande fiducia nel mio servizio d’intelligence» ha scritto, ribaltando la questione e riproponendo poi la tesi complottista contro Mosca, per far contenti i media mainstream.
Su una cosa il presidente Donald Trump ha però ragione: questo clamore e queste polemiche sono alquanto nocive per gli interessi e l’immagine internazionale degli Stati Uniti, e rischiano di oscurare il grande lavoro che c’è dietro il programma di avvicinamento e distensione degli USA con la Federazione Russa. Un programma che intende segnare la fine della Guerra Fredda e archiviare per sempre le tensioni del Novecento nonché le diffidenze tuttora in essere tra i due Paesi.
Il terzo incontro sarà a Washington
Ed eccoci al terzo incontro tra Trump e Putin. In un ennesimo tweet, probabilmente non concordato con il suo staff (di certo, non con i servizi segreti), il capo della Casa Bianca ha dichiarato che «il summit con la Russia è stato un grande successo, eccetto per il vero nemico del popolo, ovvero la macchina mediatica delle fake news». Ma soprattutto ha annunciato che ci sarà un nuovo incontro tra i due leader in autunno a Washington. E che, in quell’occasione, si discuterà di terrorismo, Israele e della questione nucleare. Lo stesso Vladimir Putin – che a sua volta ha definito il summit «un successo» – sulla questione ha però ammonito: «ci sono forze negli Stati Uniti che sono pronte a sacrificare le relazioni tra Russia e Stati Uniti», indicando (senza nominarli) nei democratici gli “avvelenatori di pozzi” di questo processo.
Dan Coats, direttore della National Intelligence, cioè l’organo che sovrintende a tutte le agenzie d’intelligence americane, ha dichiarato che il vertice autunnale «sarà una cosa speciale» ma che non ne era minimamente a conoscenza, poiché nel faccia a faccia di Helsinki erano presenti solo i due capi di stato e gli interpreti. Notizia non veritiera, poiché l’Amministrazione Trump lavora da oltre un anno alla visita e già in primavera vi era stato un annuncio in tal senso, peraltro ben accolto da Mosca.
Cosa succede ora?
Mentre la macchina diplomatica è al lavoro per portare a termine anche questo traguardo – si tratterebbe della terza visita ufficiale del presidente Putin negli Stati Uniti, dopo gli incontri con Bush Jr e Obama – restano sul tavolo questioni che un terzo meeting non potrà ignorare. Intanto, già a Helsinki è emerso come l’annessione della Crimea, russa per storia ma ucraina per territorialità, sia ormai riconosciuta de facto anche dagli Stati Uniti. Su questo, per Washington non vale la pena tornare indietro, mentre si fanno grandi resistenze sull’estradizione di 12 agenti russi accusati di aver hackerato i computer di esponenti del partito democratico.
Le sanzioni contro la Russia vedranno probabilmente un lento ma progressivo affievolirsi in favore di Mosca, visto che sia Putin che Trump trovano più conveniente confrontarsi con l’Unione Europea ciascuno per parte propria e da una posizione dominante. Mentre l’Europa si va facendo sempre più come il proverbiale vaso di coccio tra due vasi di ferro, infatti, tanto Mosca quanto Washington sembrano non credere più a un’Europa eletta quale campo di battaglia per i loro scontri istituzionali. Dunque, meglio concentrarsi sul Medio Oriente, che invece rappresenta il vero nodo ancora da sciogliere.
Su questo punto, il vertice autunnale dovrà fare massima chiarezza, e la chiave è la denuclearizzazione. Che significa sì lo smantellamento graduale degli arsenali russo e americano, ma significa anche mettere il punto sulla questione Iran-Israele che, come noto, proprio sull’atomica ha raggiunto un punto di non ritorno ed è foriera di guai per l’intera regione. Trump vorrà senz’altro spettacolarizzare l’arrivo di Putin a Washington e soprattutto cogliere un grande risultato politico da potersi giocare poi in campagna elettorale (motivo per cui l’incontro potrebbe anche essere anticipato di qualche mese, ovvero più in prossimità delle elezioni di midterm che si terranno il 6 novembre 2018).
Insomma, la linea del celebre telefono rosso dei film degli Anni Ottanta è stata riattivata grazie ai buoni uffici dell’Amministrazione Trump. Questo, al netto di ogni successivo passo in avanti nei rapporti con il Cremlino, già di per sé costituisce un successo senza precedenti per Washington, poiché stempera le crisi internazionali e dimostra che la diplomazia è tornata a battere un colpo.
Senz’altro, tale risultato è merito quasi esclusivo di Donald Trump il quale, con il suo ragionare molto (persino troppo) fuori dagli schemi, ha permesso all’America di tornare al centro della geopolitica. Mentre Vladimir Putin, che ha poco da offrire oltre la propria amicizia, appare per la prima volta in soggezione di fronte a un presidente esuberante e realmente determinato a cambiare gli equilibri. La forza dirompente dimostrata dall’inquilino della Casa Bianca non è per forza una buona notizia per Mosca, che deve ancora digerire il soggetto e capire come interpretare il nuovo che avanza. In questa partita, cioè, solo Putin ha davvero qualcosa da perdere.
Articolo pubblicato sulla rubrica Oltrefrontiera di Panorama.it
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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