L’annuncio del via libera Usa all’ingresso massiccio di uomini dell’esercito della Turchia in territorio siriano, suggellato da una telefonata al vertice tra Donald Trump e Recep Tayyip Erdogan questa domenica, certifica una verità scomoda: e cioè che la Siria per come la conoscevamo non esiste più.
Un fatto, peraltro già sotto gli occhi di tutti, che pone fine tanto alle incertezze sul ritiro degli Stati Uniti in Siria, quanto alla propaganda di Damasco, che ancora oggi continua a dichiarare di aver ripreso il controllo sul Paese.
Con il previsto ritiro degli americani, la Turchia può così passare definitivamente alla fase due della guerra, che prelude alla disintegrazione del sogno curdo di creare uno Stato autonomo nel nord della Siria.
Era l’agosto del 2016 quando forze armate turche sconfinarono per la prima volta in maniera significativa dentro il territorio siriano. Il governo per l’occasione aveva messo in piedi un’operazione in grande stile, denominata «Euphrates Shield» (Scudo d’Eufrate).
Ufficialmente, lo scopo era liberare la città di Jarablus, cruciale valico di confine, all’epoca in mano allo Stato Islamico. Ma, in verità, nei piani segreti di Ankara c’erano ben altri obiettivi: un’espansione stabile nelle aree turcomanne del nordest siriano e, soprattutto, lo stop all’avanzata dei curdi siriani lungo tutta l’area di confine.
Del resto, i piani erano apparsi evidenti già nel 2014, durante la prima fase del conflitto, quando le forze militari turche avevano lasciato che Kobane, città in maggioranza curda al confine turco-siriano, cadesse nelle mani dello Stato Islamico, e si erano guardati bene dall’aiutare la popolazione a fuggire e le milizie dello YPG a rompere l’assedio, che infatti durò quattro mesi.
Non solo, una volta che lo YPG nel gennaio 2015 riuscì a liberare Kobane, i turchi iniziarono a bersagliare queste stesse truppe, al fine di impedire loro di occupare il vuoto lasciato dallo Stato Islamico. I combattenti dello YPG, infatti, sono tutt’oggi considerati da Ankara un’estensione del PKK, partito fuorilegge e considerato dalla Turchia alla stregua di un gruppo terroristico.
Più in generale i curdi – tanto siriani quanto iracheni – sono da sempre spina nel fianco del governo di Ankara, perché ritenuti una minaccia diretta alla pace sociale del suo Paese, in quanto puntano alla costituzione della Rojava, il de facto Kurdistan autonomo che potrebbe destabilizzare la stessa Turchia, dove la presenza curda è attestata in almeno 17 milioni di persone.
Un fatto inaccettabile per il potere di Erdogan, la cui idea di politica estera è sostanzialmente tesa a ricalcare i fasti dell’Impero Ottomano. Per questo la sua politica estera punta ad assoggettare quelle aree che Ankara considera tuttora il suo naturale bacino di pertinenza, ovvero il territorio che per circa cinquecento anni è stato dominio ottomano, a cominciare proprio da Raqqa in Siria e Mosul in Iraq.
Questo ha portato in un primo tempo il suo governo a tollerare lo Stato Islamico e, più in generale, a cavalcare l’onda d’urto delle forze sunnite siriane e irachene, che chiedevano l’emancipazione dai governi di stampo sciita. Per poi fare nel dicembre 2016 quella che nel gergo dei velisti è chiamata «strambata», cioè una decisa virata in direzione di Russia e Iran, avendo compreso che solo da loro sarebbe potuto giungere un via libera alla propria politica di potenza in Siria, visto che la NATO (di cui la Turchia è parte) non intendeva muovere un dito, e che gli Stati Uniti appoggiavano lo YPG in funzione anti-ISIS.
Oggi le cose appaiono mutate, e l’ISIS è stato sconfitto. Perciò, Washington può anche permettersi di abbandonare il teatro di guerra, ma l’obiettivo di Erdogan rimane. Che siano gli Stati Uniti o la Russia a permetterglielo, il presidente turco vuole solo una cosa: la sconfitta dei curdi e un controllo militare dei propri confini, come peraltro da lui stesso dichiarato all’ultima assemblea generale delle Nazioni Unite.
Ecco perché è pronto a invadere il nord della Siria e a creare uno stato cuscinetto autonomo, usando peraltro come scudo quei 3,6 milioni di rifugiati siriani che hanno abbandonato la Siria nel 2011, allo scoppio della guerra civile, e che Ankara ha accolto. Adesso la Turchia si farà garante del loro ritorno, un’abile mossa difficilmente criticabile dalle Nazioni Unite, e che mette Damasco con le spalle al muro.
Resta da capire se il presidente Assad accetterà l’ingresso forzato dei turchi in territorio siriano o se andrà allo scontro frontale, contribuendo ad alimentare una guerra che non si è mai placata.
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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