Era il primo gennaio 2012 quando la nuova, e subito contestata, Costituzione ungherese entrava in vigore. I segnali di una svolta «autoritaria» in Ungheria – così com’è stata definita da molti osservatori internazionali – c’erano già tutti: la nuova legge fondamentale ha ristretto di fatto la separazione dei poteri dello Stato, inserito una legge elettorale anti-partiti, escluso i matrimoni omosessuali, aumentato i poteri di polizia. Ma, soprattutto, ha eliminato la dicitura «Repubblica» accanto alla parola «Ungheria».
Il tutto è opera di Viktor Orbán, premier nonché leader del partito nazional populista Fidesz e dominus della politica del Paese più o meno da vent’anni. Forte di una maggioranza assoluta in parlamento, Orbán è riuscito a completare il suo disegno già nel 2013, facendo approvare all’organo legislativo un pacchetto di emendamenti alla nuova Costituzione. A ciò sono seguite una serie di affermazioni elettorali che hanno visto crescere Fidesz fino a ottenere risultati plebiscitari, come ha dimostrato il voto alle elezioni europee, quando il partito del premier ha conquistato il 52% delle preferenze. Ma i segnali dell’affermazione c’erano già dal 2014, quando l’Ungheria ha visto crescere in maniera esponenziale la destra estremista e xenofoba: i conservatori hanno raggiunto in quell’occasione una maggioranza di due terzi nel Parlamento, mentre l’estrema destra xenofoba e antisemita del partito Jobbik («i migliori») ha superato il 20% dei voti.
Nato il 31 Maggio 1963 nel piccolo villaggio ungherese di Alcsútdoboz da una famiglia calvinista, Viktor Orbán è il maggiore dei tre figli dell’imprenditore e agronomo Gyozo Orbán, e della logopedista Erzsébet Sípos. Si forma come avvocato all’università di Budapest e successivamente studia storia della filosofia politica liberale inglese a Oxford, in Inghilterra. Fondatore del partito liberale Fidesz («Alleanza dei Giovani Democratici»), la sua carriera politica comincia con la caduta del muro di Berlino: è il 16 giugno 1989 quando il futuro capo del governo chiede pubblicamente il ritiro delle forze sovietiche e lo svolgimento di libere elezioni. Anche se all’età di quindici anni è già segretario dell’organizzazione giovanile comunista KISZ, tuttavia il suo credo politico è di ben altro stampo. E, del resto, l’appartenenza alla KISZ è obbligatoria per poter essere ammesso all’università. Divenuto poi primo ministro nel 1998 e riconfermato nel 2002, è tornato alla guida dell’Ungheria a partire dal 2010, quando Fidesz e i suoi alleati cristiano-democratici hanno riconquistato la maggioranza assoluta. Nel dicembre 2011, la sua maggioranza in parlamento ha approvato una nuova legge elettorale controversa, che ha dimezzato il numero dei parlamentari e ridisegnato la mappa delle circoscrizioni elettorali. Cosa che gli ha garantito la rielezione anche nel 2014. Sposato e padre di cinque figli, lo appassionano il calcio e la politica autoritaria di stile putiniano. Fatto, questo, che lo ha progressivamente avvicinato al Cremlino e parallelamente allontanato dall’Unione Europea, di cui oggi non condivide gran parte delle scelte, specie in materia di migranti.
Aspramente critico sulle sanzioni contro Mosca, Orbán non è nuovo a scontri con l’Unione Europea, anche se fino al 2013 aveva sempre fatto un passo indietro di fronte alle pressioni da parte di Bruxelles. Un atteggiamento prudente che, alla fine, gli ha garantito un dialogo costruttivo e il permanere di Fidesz nel gruppo parlamentare del Ppe. Ovvero quel Partito Popolare Europeo che ancora oggi domina il panorama politico dell’Unione, ma che nel marzo 2019 aveva sospeso il partito di Orbán dal gruppo che siede nel Parlamento comunitario (un compromesso per evitarne l’espulsione), in ragione dei suoi attacchi virulenti contro il presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, e contro il connazionale George Soros, finanziere e magnate da sempre nel mirino dei sovranisti. Sovranisti che in Viktor Orbán riconosce il loro più fulgido simbolo di affermazione di quelle idee altrimenti definite «populiste».
L’aiuto di Soros e la fine del comunismo
Tutto questo stride parzialmente con gli esordi lavorativi del premier ungherese, che lo hanno visto impiegato part-time nella rete di fondazioni internazionali Open Society, di cui George Soros è fondatore e dominus. All’epoca – siamo alla fine degli anni Ottanta – il finanziere aveva scommesso proprio sulle nuove generazioni, e in particolare su giovani intraprendenti come Orbán, per affrancare la società ungherese dal comunismo e promuovere un’idea diversa di società, per un modello che fosse più aperta e democratica. A Budapest, Soros aveva avuto modo di notare questo studente in giurisprudenza dopo che questi, nel giugno del 1989 (dunque, pochi mesi prima del crollo del muro di Berlino), aveva preso la parola e arringato la folla per chiedere che le truppe sovietiche lasciassero il Paese, dimostrando un coraggio fuori dal comune e suscitando applausi a scena aperta. In seguito a quell’episodio, che lo aveva reso quanto mai popolare, il magnate era deciso a seguire ogni iniziativa politica del promettente ragazzo, sino a finanziarlo: così accade per l’idea di Viktor Orbán di costituire un partito (che, sin da subito, sarà battezzato Fidesz). Soros lo finanzia attraverso semplici sistemi, come l’acquisto di una stampante Xerox, un gesto che permetterà all’organo di propaganda Századvég di iniziare a circolare negli ambienti anticomunisti. Inoltre, Soros sfrutta la propria influenza internazionale per far ottenere a Orbán una borsa di studio a Oxford: in questo modo, gli permette di approfondire le scienze politiche e gli consente anche di portare con sé la famiglia.
La politica al centro di tutto
Nonostante questo, Orbán non completerà mai i suoi studi. Pochi mesi dopo il trasferimento nel Regno Unito, infatti, il 9 novembre 1989 il muro di Berlino cade e il comunismo viene consegnato alla storia. Decide, perciò, di fare ritorno immediato in Ungheria per candidarsi in politica, la sua vera grande ambizione. Fidesz è ora libero di proporre ricette liberiste, di dichiararsi contro l’ingerenza della Chiesa negli affari di stato e di promuovere la democrazia. Nelle prime elezioni libere del 1990, la particolare verve del leader – all’epoca è già un personaggio di spicco in Ungheria, essendo stato un dissidente che ha combattuto il comunismo da oltre la cortina di ferro – permette al neonato partito di ottenere l’8,8% dei voti, che corrispondono a 22 seggi in Parlamento. Quel risultato, sia pur modesto, rappresenta il primo chiaro successo dei liberali, considerati soprattutto il momento storico e l’età dei parlamentari: Viktor all’epoca ha appena ventisette anni e i suoi sodali ne hanno comunque meno di trentacinque, età limite per iscriversi al partito. Tre anni dopo, però, Orbán è già un uomo ed è divenuto il capo indiscusso di Fidesz. Cosa che nel 1998 lo porta a ottenere la sua prima investitura da premier, alla testa di una coalizione di gruppi conservatori, di cui fanno parte: Fidesz, il Forum Democratico Ungherese (Mdf) e il Partito dei Piccoli Proprietari Indipendenti (Fkgp). Sono gli anni in cui l’Ungheria entra nella Nato e il premier chiede che il Paese sia parte dell’Unione Europea. Per mostrarsi più accomodante e in linea con il sentimento del popolo europeo, da un paio d’anni Orbán ha anche iniziato a smussare alcuni angoli e a blandire la Chiesa, al punto che nel 1996 si costringe a sposare nuovamente, stavolta con rito cattolico, la moglie Anikó Lévai. Il 2002 segna, però, una battuta d’arresto alle sue ambizioni: nonostante le ottime performance economiche dell’Ungheria, il cui Pil cresce intorno al 4-5% da anni, le elezioni generali – che peraltro registrano una partecipazione record, che va oltre il 73% – vedono il premier sconfitto dai socialisti. Il Partito Socialista Ungherese, infatti, si è presentato alle urne in coalizione con l’Alleanza dei Liberi Democratici, che riescono a eleggere Péter Medgyessy. Il nuovo governo toglie così a Orbán la soddisfazione d’intestarsi l’ingresso dell’Ungheria nell’Unione Europea, che il primo maggio del 2004 diviene ufficialmente un Paese membro. Ma già alle elezioni europee di quell’anno Fidesz torna a vincere, conquistando 12 dei 24 seggi spettanti all’Ungheria, mentre l’anno seguente riesce a far eleggere presidente della Repubblica il proprio candidato, László Sólyom, che resterà in carica sino al 2010, anno in cui matura la rivincita definitiva di Viktor Orbán. Alle elezioni di aprile il suo partito – che si è messo in coalizione con i cristiano-democratici del Kdnp, segno che Orbán ha imparato la lezione – ottiene il 52% dei consensi e può varare il suo secondo governo. Questo porta Viktor Orbán al suo apice: nel gennaio del 2011 ottiene infatti l’investitura di presidente di turno dell’Unione Europea, carica che mantiene come da prassi sino al giugno dello stesso anno. Da quella data in poi, il premier inanella una serie di successi, garantiti anche da aggressive quanto efficaci politiche in materia di politiche familiari, che gonfiano le urne nel 2014 e nel 2018, e rilanciano la fiducia delle famiglie ungheresi nel futuro (oggi, ad esempio, il tasso di crescita dei matrimoni è intorno al 42%), grazie anche a una spesa per le politiche familiari doppia rispetto alla media Ocse. In mezzo, non manca la nuova Costituzione, varata nel 2012 e che fa gridare al «golpe bianco» una larga parte dell’Unione Europea: per alcune limitazioni della libertà d’espressione; la criminalizzazione dei senzatetto; il divieto per gli studenti di espatriare prima di dieci anni; ma soprattutto per la riforma della ripartizione dei poteri, che depotenzia notevolmente la magistratura e, nello specifico, la Corte costituzionale.
Visegrad e la lotta ai migranti
Come spiegato da alcune analisi del New York Times, non si sa cosa abbia spinto nel tempo Orbán ad assumere posizioni sempre più conservatrici e a diventare uno di quei nazionalisti contro i quali, da giovane, si era sempre scagliato. «Alcuni analisti credono che [la sua virata] fu un cambio di rotta genuino, di un uomo le cui idee politiche erano ancora in fase di costruzione. Altri affermano che divenne insofferente nei confronti di alcuni liberali cosmopoliti. Ma la maggior parte pensa che il cambiamento di Orbán sia stato la risposta pragmatica al panorama politico ungherese» scrive il quotidiano americano. Secondo questa tesi, nel tempo Orbán ha trasformato il partito Fidesz soprattutto per ragioni di opportunismo: a sinistra c’erano già molti partiti, mentre al centro e a destra lo spazio era sempre rimasto vuoto. Lì, Fidesz avrebbe potuto farsi strada. Lo stesso discorso vale per il rapporto di amoL’AUTOREVOLE AUTORITARIO Dimitri Kovacs 162 re-odio con George Soros. Nel 2015, prima che Orbán iniziasse ad attaccarlo pubblicamente, il magnate era già diventato il simbolo di una minaccia e si sospettava, a causa di una tremenda fake news diffusa su YouTube, che volesse riempire l’Ungheria di migranti. Ovviamente non era vero. Resta il fatto che è stato proprio il tema dei migranti ad averlo fatto conoscere alle masse europee e ad averlo reso bandiera dei sovranisti, quanto consapevolmente o meno non è dato sapere. Anche per questo il quotidiano statunitense Politico ha scritto di lui: «Orbán è ora il talismano della destra mainstream dell’Europa». Di certo, la politica del premier in materia di migrazione è proseguita negli anni senza sosta: l’ultima dimostrazione di forza in tal senso è stata la costruzione di una recinzione di ben 175 km lungo il confine con la Serbia, per frenare il flusso dei migranti in ingresso provenienti da Medio Oriente e Africa, i cui lavori sono partiti nel luglio 2015. E c’è da credere che l’Ungheria sotto il suo comando continuerà a lavorare in tal senso, dando del filo da torcere ai suoi partner europei. Anche perché, a seguito delle elezioni del 2018, Fidesz è stato confermato quale primo partito nazionale con il 49,27% dei voti espressi in suo favore, ottenendo 133 seggi su 199 nell’Assemblea Nazionale e confermando quindi Viktor Orbán a capo del governo sino al 2022. Del resto, non ci si può aspettare niente di diverso da parte di un capo del governo che ha più volte affermato: «I leader europei hanno dimostrato chiaramente di non essere in grado, di non avere la capacità di gestire la situazione […] Tocca ai singoli Paesi controllare le frontiere esterne. È questo che sta facendo l’Ungheria». E ancora, come da lui stesso vergato in un editoriale sulle pagine del quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung: «La risposta dell’Europa è una follia, dobbiamo riconoscere che la politica di immigrazione fuorviata dall’Unione europea è responsabile di questa situazione» in riferimento alle quote di migranti da ricollocare e redistribuire tra i Paesi membri, uno dei temi più caldi dell’Ue in ambito securitario. In effetti, l’Ungheria di Orbán guida il cosiddetto «gruppo di Visegrad», ossia l’alleanza tra quattro Paesi membri Ue – oltre a Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia – che porta avanti posizioni euroscettiche e rigide in tema d’immigrazione, che si sostanziano nel rifiuto di aderire alla distribuzione dei migranti per quote. Il gruppo prende il nome dalla piccola città ungherese dove fu costituito il blocco nel 1991, in seguito al crollo dell’Unione Sovietica, per rafforzare la cooperazione tra questi Paesi dopo la scomparsa della «cortina di ferro». Oltre all’aspetto migratorio, pesa nel consenso tra i Paesi la volontà di richiamare in seno all’Europa le radici cristiane.
L’alleato russo
Parzialmente isolata a Bruxelles, l’Ungheria ha però trovato un’ottima sponda in Mosca e Viktor Orbán stesso ha coltivato un suo personale rapporto con Vladimir Putin. Il Parlamento ungherese, non a caso, aveva approvato tra il 2010 e il 2014 una legge «filorussa» che puntava ad accelerare la costruzione del gasdotto South Stream con l’aiuto del colosso russo Gazprom. Una mossa proposta dall’esecutivo ungherese che aveva dimostrato la volontà del premier di ignorare del tutto regole e cavilli imposti dall’Unione Europea, che invece lavorava per bloccare la messa in opera delle condotte, per favorire l’amico al Cremlino. Tale legge permetteva di velocizzare la costruzione del gasdotto, ignorando i richiami della Commissione Europea. Tuttavia, nel dicembre 2014 questa politica ha subito una grave battuta d’arresto, quando la Russia, per bocca dello stesso presidente Putin, ha annullato i suoi piani per il gasdotto South Stream. Nel medesimo anno, però, il governo Orbàn aveva intanto approvato un piano da 10 miliardi di euro, in accordo con Mosca, per il finanziamento di due nuovi reattori alla centrale nucleare di Paks. A dimostrazione che il rapporto speciale con Mosca era destinato a proseguire. Ancora nel 2019, il governo ungherese si conferma il miglior alleato di Mosca all’interno del gruppo di Visegrad: a dimostrazione di ciò, è la scelta di Orbán di ospitare a Budapest l’International Investment Bank (Iib), istituto bancario erede della Banca internazionale degli investimenti del Comecon sovietico, ripristinato dal presidente russo nel 2012. Il fatto che Mosca lo abbia voluto ricostituire all’interno dell’Unione Europea con la complicità del leader ungherese, è stato letto come un segnale di allarme da molti analisti: si tratterebbe di un potenziale «cavallo di Troia» del Cremlino nel cuore dell’Europa orientale, visto che l’istituto è da sempre guardato con sospetto dai vertici dell’Ue e della Nato, in ragione delle non trasparenti operazioni finanziarie, che sfuggirebbero ai controlli delle stesse autorità ungheresi, e che garantirebbe immunità a funzionari e diplomatici non europei sia pur se in territorio Ue. Viktor Orbán, insomma, si sente sempre meno vincolato dalle disposizioni di Bruxelles e di Washington, e lavora per rendere l’Ungheria un Paese sempre più autonomo da qualsivoglia potere che non risieda a Budapest.
Tratto dal libro
Leaders. I volti del potere mondiale
a cura di Luciano Tirinnanzi
Paesi Edizioni
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