All’indomani del voto spagnolo gira insistentemente sui social un’immagine che mette a confronto il voto del 2016 e quello di domenica 28 aprile 2019. Da una parte, c’è una Spagna quasi completamente azzurra, quella della vittoria del Partido Popular (PP) di tre anni fa; dall’altra, una Spagna quasi interamente rossa, il colore del Partito Socialista Operaio Spagnolo (PSOE) di Pedro Sanchez, indiscusso vincitore dell’ultima tornata elettorale.
Il PSOE si è imposto nettamente dopo undici anni. Il ricordo va subito al 2008, ai tempi di José Luis Zapatero. Oggi, invece, l’eroe della sinistra è lui: Pedro il “guapo”, cosciente che questo è soprattutto un successo personale. In seguito agli scontri con l’opposizione interna del partito, Sanchez si era dimesso da segretario per poi tornare alla carica trionfando alle primarie del maggio 2017. Dopo aver sostituito il premier conservatore Mariano Rajoy, si è visto costretto a indire elezioni anticipate a causa della bocciatura, avvenuta lo scorso febbraio, della legge di bilancio. Ma quelle elezioni Sanchez le ha vinte. I Socialisti hanno raggiunto il 28,67%, conquistato 123 seggi. Il PSOE è il primo partito in tutte le comunità autonome, fatta eccezione per la Catalogna, i Paesi Baschi, la Navarra e Melilla. Anche nell’analisi del voto (Youtrend) delle 25 città più popolose il PSOE risulta sempre primo. Tranne in tre casi, dove è arrivato secondo. «Ha perso il passato e ha vinto il futuro», ha detto Sanchez ai suoi sostenitori accorsi alla sede del partito a calle Ferraz, a Madrid.
Eppure, soltanto qualche mese fa l’avanzata della destra sembrava inarrestabile. A dicembre in Andalusia, la Comunidad più popolosa del Paese, ad avere la meglio era stata la coalizione trifacha – definizione degli avversari – di Partido Popular, Ciudadanos e Vox. L’ingresso nel parlamento locale di quest’ultima formazione aveva fatto più rumore della conquista di una roccaforte rossa per la prima volta da 36 anni. E questo perché non era mai accaduto dalla caduta del franquismo che un partito dichiaratamente fascista entrava in un parlamento locale. “El dia que la extrema derecha movilizó a la izquierda” – “Il giorno in cui l’estrema destra ha mobilitato la sinistra”- ha twittato il giornalista Jordi Évole a spogli quasi ultimati.
Per molti analisti, Sanchez è riuscito a rifocillare il suo consenso agitando la minaccia di una destra anti-femminista, ostile ai migranti, nostalgica dei tempi della polizia dei grises. La pensano così anche ABC ed El Mundo. Il francese Liberation, per esempio, ha titolato “Remuntada”, esaltando il successo della sinistra contro il populismo di destra. Ancora, però, rispetto a qualche giorno fa c’è che Vox è entrato per la prima volta con 24 scranni in Parlamento. Vox non è esploso, non ha sfondato, ma si è fatto strada, un po’ come l’Afd in Germania e il Partito per la Libertà in Olanda. «Questo è solo l’inizio», ha promesso appunto il leader Santiago Abascal.
A destra, le dolenti note sono tutte per il Partido Popular. Il segretario Pablo Casado è stato confermato nonostante il fracaso: tre milioni e mezzo i voti persi dalla vittoria del 2016 e soltanto 66 i seggi conservati. La destra tradizionale paga le politiche di austerità dell’esecutivo Rajoy, il caso di corruzione Gurtel che ha portato alla sfiducia nei confronti dell’ex presidente, e la gestione a tratti militaresca della questione catalana. Il PP ha anche accusato Vox e Ciudadanos di aver messo in atto una “cannibalizzazione” del voto di destra. Toccherà ora una difficoltosa ricostruzione tra i banchi di un’opposizione molto frammentata.
Ciudadanos e Unidas Podemos – le nuove destra e sinistra eredità dei movimenti degli indignados – si piazzano entrambe seconde nelle proprie correnti. Ciudadanos ha sfiorato con 56 seggi il PP. Già prima del voto si vociferava di larghe intese con il PSOE, eventualità poi smentita sia dal leader Albert Rivera che da Sanchez.
Non bastano invece i voti di Unidas Podemos, coalizione tra Podemos e Izquierda Unida, per arrivare ai 176 seggi necessari a una maggioranza di sinistra. Sanchez dovrà forse ricorrere ai partiti indipendentisti. Anche se furono proprio i catalani, tra cui Esquerra Repubblicana, con il loro voto contro la legge di bilancio a provocare il ritorno alle urne. Per Esquerra Repubblicana, che conta tra gli eletti 5 separatisti dei 12 ora in carcere e sotto processo, è storica la vittoria di domenica 28 aprile in Catalogna, la prima degli indipendentisti alle elezioni generali.
Gli spagnoli sono tornati alle urne. Un ritorno si può dire “in pompa magna”, considerando che ha votato oltre il 75% degli aventi diritto. Un’affluenza record, nove punti percentuali in più rispetto al 2016. Nove punti che hanno confermato – qualora non fosse stato chiaro – la fine del bipolarismo e la frammentazione esasperata della politica spagnola.
Il Paese, dunque, non è proprio quello rosso indicato dalla mappa. La situazione è molto più complessa. Non esiste una maggioranza, ma qualcuno dovrà pur inventarsela. Sanchez sicuramente avrà la precedenza, poi il compito di negoziare toccherebbe al Re Filippo VI. Ma tutto pare rimandato a dopo le elezioni europee e locali che testeranno ulteriormente gli umori del Paese. La prima opzione, quella al momento più probabile, è un governo monocolore PSOE con l’appoggio esterno di altri partiti.
La Spagna quindi è rosa piuttosto che rossa. Mai tante donne sono entrate a Las Cortes. È di 41,1% la percentuale di elette in Parlamento, anche meglio rispetto al record del 2015, siamo a un punto e mezzo in più. Il dato è la proiezione parlamentare di una coscienza femminista capace di portare in piazza a Madrid per l’8 marzo quasi 400mila persone e altre 200mila a Barcellona. Ma è anche la reazione all’anti-femminismo di Vox, al movimento MeToo e al caso della Manada, lo stupro di un branco ai danni di una 18enne durante le celebrazioni di San Fermín a Pamplona. Il femminismo è l’espressione di una parte del Paese reale, lo stesso che aspetta risposte sulla disoccupazione (salita oltre il 14%), sulle pensioni, sulla precarietà del lavoro, sulla sua integrità territoriale. È in questi temi che sta il futuro della politica e, insieme, della Spagna.
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