La società russa come quella europea non erano preparate allo choc di dover assistere senza una vera ragione a un nuova guerra in Europa. L’aggressione di Mosca contro a Kiev ha riportato l’orologio indietro di circa un secolo. Quando le ideologie e i sogni imperialistici si imponevano su tutte le altre istanze: politiche, economiche, sociali. Vladimir Putin sogna un posto privilegiato nella storia, dimentico del fatto che ne fa già parte. Ma l’ultimo capitolo della sua lunga carriera potrebbe risultargli fatale.
Un giorno un giovanissimo Vladimir Putin udì il leader supremo dell’Urss Yuri Andropov lamentarsi che il problema principale del Politburo fosse quello di «non conoscere più il Paese che stiamo governando». Il bravo funzionario del Kgb apprese la lezione e ne fece tesoro. Agli esordi della sua prima presidenza, raccontano che Putin aveva introdotto la regola di fissare i suoi appuntamenti per il quarto di ogni ora: il neopresidente voleva una versione più obiettiva della realtà ed essere sempre al corrente delle critiche dei suoi avversari. Applicava cioè la regola fondamentale per il funzionamento efficiente di qualunque sistema, non solo politico: l’esistenza del feedback negativo. In parole semplici, la libera circolazione delle critiche.
«Oggi quel metodo non esiste più. Non solo il presidente non conosce Internet e non guarda i telegiornali ma arriva tardi a ogni appuntamento, incluso quello con il Papa o Angela Merkel, perché si sente padrone del mondo e sopra ogni giudizio» conferma la cremlinologa Anna Zafesova. È la sua una sorta di realtà parallela, cosicché finanche i ministri devono fare una lunga anticamera per incontrarlo. Inoltre si è trincerato in una sorta di esilio dorato, la sua dacia a Sochi, dove ha fatto costruire una copia quasi identica del suo ufficio al Cremlino (milioni di russi si sono divertiti a trovare le differenze nelle righe del parquet e nel posizionamento degli interruttori).
Dopo il Covid, in particolare, chiunque desidera incontrarlo – politici o giornalisti, generali o camerieri, funzionari o amici – devono sottoporsi a una quarantena di 14 giorni. Il che ha alimentato in molti analisti moscoviti la convinzione che ormai Putin sia «ostaggio» di un cerchio magico di yes men, fatto da pseudo parenti e servitori, personal trainer e amici-oligarchi, guardie del corpo e confessori, che gonfiano a dismisura le antipatie e alimentano i capricci della tarda maturità presidenziale, senza offirgli una visione critica al suo operato. E così, quand’anche tutti sapevano che invadere l’Ucraina avrebbe costituito un errore fatale per la Russia, nessuno ha osato dirglielo. Ecco perché, per cercare di comprendere se davvero il leader russo voglia andare fino in fondo al suo obiettivo, scatenando una nuova guerra nel cuore dell’Europa, bisogna partire dalla sua personale interpretazione della realtà.
L’unica colomba ad avere ancora un peso specifico nel «Cremlino di Sochi» è Sergei Lavrov, esperto ministro degli Esteri e acuto mediatore delle volontà del capo supremo. Solo a lui, molto probabilmente, si deve la complicata e contraddittoria negoziazione tra le parti in guerra. Artefice dei maggiori successi russi degli ultimi anni – dalla Siria alla Cina, dalla Libia alla Turchia – ha suggerito più volte e con veemenza al presidente di ascoltare gli sforzi diplomatici per ottenere garanzie di sicurezza dall’Occidente. In uno scambio televisivo piuttosto teso prima di ordinare l’attacco, Putin aveva chiesto a Lavrov se fosse stato solo trascinato in negoziati tortuosi o se aveva in mano «la possibilità di raggiungere un accordo per affrontare i problemi di sicurezza della Russia». Lavrov aveva risposto che «gli Stati Uniti hanno avanzato proposte concrete… In questa fase, suggerirei di continuare e costruirle», e la vicenda aveva dato ancora un po’ di fiato alla diplomazia. Ma alle colombe Putin ha preferito ormai i falchi come il potente ministro della Difesa Sergei Shoigu.
Va notato un particolare di quel passaggio tv: Lavrov era seduto a distanza siderale da Vladimir Putin, così come lo erano stati il presidente francese Emmanuel Macron e gli altri leader europei sfilati alla «corte dello Zar». Questo dettaglio non è banale, ma rivela l’atteggiamento di cui sopra del presidente e della diffidenza che entrambe le parti – il capo isolato da un lato e i suoi lucidi amministratori all’opposto – nutrono l’una verso l’altra. Fonti moscovite descrivono da tempo la crescente tensione che si respira al Cremlino, dove la classe dirigente è preoccupata che Putin trascini nel baratro uno Stato economicamente danneggiato da una gerontocrazia corrotta, senza mai concedere un trasferimento di poteri che modernizzi appunto una mono-economia come quella russa. Cosa che alimenta sentimenti di rivalsa interni da non sottovalutare nel lungo periodo.
Questa percezione del padre-padrone della Federazione Russa è una nemesi per chi, come lui, è nato e cresciuto in uno dei più influenti – e famigerati – servizi segreti al mondo, il Kgb. Come quando mostrò al regista Oliver Stone un filmato delle operazioni in Siria delle truppe speciali russe, che in realtà erano di soldati americani; o come quando affermò che la sanità del Paese era stata la più efficiente nel combattere il Covid, ignorando le dichiarazioni allarmate del suo stesso governo sulle statistiche circa la mortalità in eccesso.
Insomma, isolato nella sua dimensione, Putin è più pericoloso che mai, ma non ha intenzione di cedere il comando. E pur di mantenerlo, è capace di tutto. Anche di invadere altri Paesi oltre all’Ucraina, se fosse necessario. L’obiettivo finale di Putin, in fondo, non si limita a voler tenere lontano dalla sua immensa nazione tanto la Nato di Washington quanto la Cina di Xi Jinping. Ma intende ricostruire la «Grande Russia». E di fronte a progetti che travalicano la politica e l’economia, ma s’inseriscono nel campo dell’ideologia, c’è poco da fare.
Bene ha detto James Woolsey, ex direttore della Cia, a poche ore dall’inizio della mobilitazione delle truppe russe minacciosamente ammassate in Bielorussia e ai confini ucraini: «Putin si è cacciato in un vicolo cieco, però noi dobbiamo aiutarlo a venirne fuori. Per riuscirci servono due cose: primo, l’alleanza occidentale deve restare molto unita nel minacciare le conseguenze più dure possibili in caso d’invasione; secondo, possiamo offrire un’opzione che gli consenta di salvare la faccia, senza chiudere ufficialmente la porta all’ingresso dell’Ucraina nella Nato, ma rinviandola a tempo indeterminato».
«Ai russi Putin ha sempre detto “non mangerete mai bene come i francesi e non vi vestirete mai come gli italiani, però vivrete nel più grande impero del mondo ed io vi restituirò quello che Gorbaciov e Eltsin hanno svenduto”» ricorda il politologo americano Edward Luttwak. Ma il popolo continua a credere a questa narrazione? Il potere d’acquisto dei russi è in caduta libera, la popolarità del presidente continua a calare, e in tutti i Paesi usciti dall’Unione sovietica che sono ancora legati a Mosca si vivono incessanti crisi, dove le popolazioni lamentano crisi economiche e chiedono maggiore democrazia. Senza contare che le nostalgie imperiali non scaldano più il cuore delle giovani generazioni: di certo non quelle cresciute dopo la disgregazione sovietica (vedere il caso Alexey Navalny in proposito).
Inoltre, i miracoli economici promessi da Putin restano un miraggio eccetto per i suoi amici oligarchi, che insieme con lui diventano sempre più ricchi. Tuttavia lo stato dell’economia russa non è così disastroso come si crede: gli attuali costi stellari del gas danno una mano e in cassa ci sono riserve valutarie pari a 631 miliardi di dollari. Nonostante il forte stop del 2020 dovuto alla pandemia (che ha ridotto anche la richiesta energetica), il 2021 ha fatto registrare un rialzo del Pil pari al 4,3 per cento, mentre per il 2022 le previsioni sono disastrose, specie dopo le dure sanzioni comminate da Usa e Ue.
Nel governo italiano si guarda più a questo aspetto economico che all’allargamento a Est della Nato – problema cui sono interessati molto gli americani e molto poco gli europei. A cominciare da Roma e Berlino. «Ovviamente il tema energetico c’è perché l’economia di quel Paese si basa principalmente sulla vendita delle ricchezze del sottosuolo, in particolare gas naturale, e l’approvvigionamento europeo per il 40 per cento dipende dalla Russia» conferma Alberto Pagani della commissione Difesa e delegato parlamentare in assemblea Nato. «Non è un fatto eludibile, né secondario per noi». Un ricatto, quello del gas, che come quello dei carri armati, non può durare per sempre.
Articolo tratto da
Tramonto Russo
Babilon 4
Luciano Tirinnanzi
Direttore di Babilon, giornalista professionista, classe 1979. Collabora con Panorama, è autore di numerosi saggi, esperto di Relazioni Internazionali e terrorismo.
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