Il Partito comunista cinese sta divorando se stesso. Il mese scorso il New York Times ha pubblicato una serie di documenti classificati del governo cinese, più di 400 pagine, che hanno aperto uno squarcio nel processo storico che ha portato il Partito comunista cinese (Pcc) all’inasprimento delle politiche di repressione e controllo delle minoranze di fede musulmana nella regione autonoma dello Xinjiang. I documenti del New York Times mettono in luce la portata delle politiche del Pcc disegnando il quadro della situazione nella regione, dove la Cina negli ultimi tre anni ha deportato almeno un milione di uiguri e altre minoranze etniche in campi di detenzione di massa. Pechino si è sempre difesa da queste accuse, avanzate in precedenza da report di organizzazioni pro diritti umani e suffragate da immagini satellitari, definendo le prigioni dei «campi di rieducazione» necessari a combattere la minaccia terroristica.
Ad ogni modo, i documenti sono stati trasmessi al New York Times da un fuzionario cinese che ha chiesto di restare anonimo. In queste 400 pagine di materiale interno ci sono discorsi privati del presidente cinese Xi Jinping e di altri funzionari e le direttive per la gesione della sicurezza nello Xinjiang. Il fatto che questa mole di materiale sia stata trasmessa da un membro interno all’establishment politico cinese al giornale americano potrebbe essere la prova che il Partito non è unito intorno alla figura di Xi Jinping. Secondo quanto racconta il New York Times, la fonte che ha fornito i documenti classificati ha anche espresso il desiderio che i leader del Partito paghino per le loro responsabilità nello Xinjiang. Si moltiplicano dunque gli episodi di insofferenza nei confronti dello stile di leadership esercitato da Xi Jinping e riguardo l’accentramento del potere nelle mani di una singola persona, reso possibile anche da una più rigida disciplina all’interno del partito voluta dallo stesso Xi. Delle voci contrarie a Xi e del fatto che la fragilità dell’attuale presidente cinese risiede appunto nel suo stesso potere ne abbiamo scritto nel numero 5 della rivista Babilon:
In passato, il pericolo rappresentato dai “barbari” e le endemiche carestie, oggi le proteste di Hong Kong. La Cina mostra di avere, oltre a grandi potenzialità, anche delle debolezze. Davanti alle maestose proteste di Hong Kong, la leader Carrie Lam ha fatto un passo indietro e la discrezione iniziale di Pechino non è stata sufficiente a nascondere il disagio della Cina a contatto con la richiesta impellente di maggiore democrazia. Il problema principale di oggi potrebbe essere proprio la gestione del dissenso. Nel sistema politico cinese risiede la fragilità dell’ex impero celeste, seconda super potenza del pianeta, ma sempre più simile a un’autocrazia moderna.
A far capitolare Pechino in futuro potrebbe essere la condotta antidemocratica del Pcc, da cui potrebbero derivare errori potenzialmente fatali. Erano in tanti a credere che le riforme economiche e la progressiva integrazione della Cina nel mercato internazionale avrebbero portato a una maggiore democrazia. Eppure, il caso cinese contraddice la teoria elaborata in decenni di scienza politica secondo cui “più si è ricchi e più si diventa liberi”. In questi anni, sono aumentate la repressione e la censura, e lo Stato ha elaborato sistemi di controllo e sorveglianza sempre più sofisticati per tenere sotto stretta osservazione la popolazione. Riconoscimento facciale, ricorso all’intelligence, metodi di spionaggio aggressivi, sono le misure adottate per contenere il disordine interno e scongiurare un’altra Tiananmen. In un’espressione: “autoritarismo digitale”, unito a un esercito sempre più forte e dalle capacità capillari.
Nella stessa crescita economica e nel conseguente deficit di democrazia potrebbe celarsi il punto debole della Cina del nuovo timoniere, Xi Jinping. Inoltre, in un’era segnata dall’ascesa dei populismi, la Cina resta governata da gruppi ristretti di figure distanti dai cittadini, che detengono il potere sulla base della promessa di maggiore benessere e sul ricorso all’uso della forza. Come ricorda il Financial Times, l’economia cinese ha superato di 37 volte le dimensioni del 1978 e 850 milioni di cinesi sono riusciti a emergere dalla soglia di povertà. Il livello di benessere, conseguito nel corso degli ultimi quarant’anni, avrebbe permesso a Pechino di conquistare la fiducia del popolo, alimentando sentimenti patriottici e nazionalismo. Una lettura, questa, figlia di una facile semplificazione e colpevole, probabilmente, di non riuscire a intravedere l’elemento di maggiore fragilità della Cina odierna: l’insoddisfazione crescente della classe media.
La dura presa di Pechino sulla società attraverso il giro di vite contro intellettuali e dissidenti, dovrebbe essere visto come il segnale di un’instabilità latente, mentre il rallentamento economico potrebbe un giorno innescare la scintilla del conflitto interno. L’ipotesi che tale instabilità in Cina si tramuti in dissenso organizzato e in incidenti capaci di portare a sconvolgimenti politici è ancora remota. Eventualità meno remota per il “porto profumato” di Hong Kong, unico luogo insieme all’altra ex colonia straniera di Macao dove, ad esempio, sono ammesse le manifestazioni in ricordo di Tiananmen.
La repressione del dissenso e il controllo sui media in Cina sta lasciando spazio a una risposta esemplare da parte delle nuove generazioni, la stessa che è esplosa nell’ex possedimento britannico. I giovani della Cina continentale sembrano quasi disinteressati alla politica, ma il loro atteggiamento non andrebbe interpretato come un cieco asservimento a Pechino. Forse le nuove generazioni non hanno ancora capito se è possibile reagire e in quale forma. Ed è qui la differenza con Hong Kong, dove la lezione della fallita rivoluzione degli ombrelli sembra essere stata digerita dai manifestanti, in maggioranza ventenni. Gli errori dovuti alla frammentazione interna tra i leader della protesta sembrano essere stati compresi e superati, anche se tale consapevolezza è sfociata per adesso soltanto in rabbia e violenza.
Il presidente Xi ha epurato il partito dagli oppositori, la campagna anticorruzione ha ripulito il sistema politico da una pratica dilagante e molto pericolosa per il Paese. Xi, però, con ciò ha messo fine al processo collegiale di decision making, plasmando il partito secondo il proprio volere e accentrando il potere nelle mani di una sola persona, la sua. Se, prima di lui, Deng Xiaoping in maniera lungimirante aveva cercato di proteggere la Cina dalle derive autoritarie, con Xi tutte le voci contrarie alle posizioni del leader sono state soffocate, e il dibattito interno al partito è sparito, sostituito da premi per la lealtà e l’uniformità al suo pensiero. Tuttavia, durante l’ultima Assemblea nazionale del popolo – considerata il “parlamento cinese” – ci sarebbe stato un numero stranamente rilevante di espressioni di dissenso, forse un primo campanello d’allarme. Non solo, il caso di Hong Kong potrebbe giovare alla resistenza di Taiwan, la provincia ribelle che nel sogno di Xi tornerà alla Cina, anche con la forza. Per Xi, dunque, niente potrebbe rivelarsi più pericoloso che essere a bordo di un’auto lanciata a folle velocità, dove il presidente cinese è l’unico a stabilire la direzione da prendere.
PHOTO: A speech by state and party leader Xi Jinping is televised in front of the Id Kah Mosque in Kashgar, Xinjiang province. Source: Michael Wong via flickr.
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Erminia Voccia
Giornalista professionista, campana, classe 1986, collabora con Il Mattino di Napoli. Laurea magistrale in Relazioni Internazionali presso l’Università “L’Orientale” di Napoli. Master in giornalismo e giornalismo radiotelevisivo presso Eidos di Roma. Appassionata di Asia.
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