Il colpo di stato “dolce” con cui nella notte tra il 14 e il 15 novembre il presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe è stato spodestato dai militari, si tinge di giallo. Durante la sua presunta ultima conferenza stampa, circondato dagli stessi golpisti, Mugabe avrebbe dovuto annunciare il passo di lato per permettere al suo vice Emmerson Mnangagwa di prendere il potere nel partito Zanu-PF. Evitando così che la moglie di Mugabe, Grace, invisa ai militari e al partito, si candidasse quale nuovo presidente nel 2018, innescando una presidenza per via dinastica nel paese africano.
Con un colpo di scena a favor di telecamere, però, il 93enne Mugabe ha invece resistito a quanti lo volevano defenestrare e ha dichiarato che continuerà a gestire il potere sino al congresso del partito, che si terrà nelle prossime settimane. Il coriaceo leader, nel suo discorso di venti minuti, ha anche parlato direttamente ai generali che lo circondavano, affermando: «Quali che siano i pro e i contro di come l’esercito ha condotto le operazioni, io, come comandante in capo, riconosco le loro preoccupazioni», riferendosi alla mossa dei militari di occupare le strade della capitale Harare e prendere il controllo dell’emittente di stato.
Un tentativo di limitare i danni per il suo voltafaccia dell’ultimo minuto, che tuttavia difficilmente servirà a stemperare la situazione. L’attuale capo dello Zanu-PF, Lovemore Matuke, ha infatti sostenuto che l’ultimatum per le sue dimissioni dal partito è rimasto invariato. E dunque non si capisce come Mugabe potrà presenziare al congresso di dicembre.
Ma poiché sono soprattutto i militari a giocare il ruolo centrale in questa intricata storia, bisogna prima analizzare come reagiranno loro all’ultima provocazione di Mugabe. Uno su tutti, il generale Constantino Chiwenga, stretto alleato del leader in pectore Emmerson Mnangagwa, del quale è stato compagno d’armi durante la guerra civile del 1964-1979.
Chiwenga, che pochi giorni prima del rovesciamento di Mugabe si trovava a Pechino per allinearsi con i cinesi sulle future alleanze economiche (soprattutto in merito alle concessioni per i giacimenti diamanti), non desidera sparare neanche un colpo e preferisce una rimozione soft del presidente Mugabe. Sia perché l’esercito ha gli occhi degli osservatori internazionali puntati addosso sia perché questo è lo stile di Pechino, che non vuole interferenze di sorta nel paese che intende sfruttare.
Così, all’orizzonte si profila solo una strada, quella di un impeachment per il presidente, da anni sollecitato da parte delle opposizioni ma che sinora era stato scongiurato per volontà del partito Zanu-PF. Che, dopo averlo difeso per anni, adesso invece gli si è rivoltato contro. In attesa che il congresso incoroni Emmerson Mnangagwa, un ex capo della sicurezza dello stato, soprannominato “il coccodrillo” per la sua percezione di astuzia. Mnangagwa era fuggito dallo Zimbabwe due settimane fa, dopo il suo licenziamento da parte di Mugabe, ma da allora sarebbe tornato con il placet dei militari.
Dunque, lo scontro finale è soltanto rimandato. Mugabe, però, è pronto a resistere ed è abituato a tutto. Ha guidato il paese sin dall’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1980, quando le prime elezioni a suffragio universale lo elessero capo del governo dello Zimbabwe, di cui assunse successivamente anche la carica di presidente.
Passato indenne lungo i tribolati anni Settanta e Ottanta, sconvolti da duri scontri interetnici tra i partiti ZANU (di etnia Shona, più violento e nazionalista) e ZAPU (Unione del Popolo Africano dello Zimbabwe, di etnia Ndebele e più disposto al dialogo), nel 1988 Mugabe trovò una sintesi politica di cui ancora oggi è espressione il partito Zanu-PF.
Dagli anni Novanta, lo Zimbabwe è di fatto un paese a partito unico, cosa che ha permesso a Mugabe di essere rieletto senza alcuna opposizione per diversi mandati, l’ultimo rinnovato con le elezioni del luglio 2013.
Ora però Mugabe è al tramonto e già domani contro di lui potrebbe essere avviato in parlamento il processo di messa in stato d’accusa presidenziale. Di certo, non mancano per lui le prove di corruzione e violazione di diritti civili. Ciò richiederà comunque una maggioranza di due terzi in entrambe le camere. Solo in quel caso, sapremo se lo Zimbabwe uscirà da questa crisi per via legale, senza bagni di sangue nelle strade.
Rocco Bellantone
Caporedattore di Babilon, giornalista professionista, classe 1983. Collabora con le riviste Nigrizia e La Nuova Ecologia di Legambiente. Si occupa di Africa, immigrazione e ambiente.
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